Ignorati dai media impegnati a seguire le tappe di avvicinamento alla nuova guerra che gli Usa scateneranno in Medio Oriente, gli “altri” conflitti mediorientali rischiano l’oblio. A cominciare da quello israelo-palestinese. L’espansione delle colonie israeliane a Gerusalemme Est e in Cisgiordania procede senza soste nonostante i negoziati ripresi a luglio tra il governo Netanyahu e l’Anp di Abu Mazen, dopo quasi quattro anni di blocco. I colloqui proseguono, guidati dal negoziatore palestinese Saeb Erekat e dalla ministra israeliana Tzipi Livni. Si sa poco dei risultati. Si è appreso che dopo la liberazione di 24 detenuti politici palestinesi avvenuta il mese scorso, un altro gruppo di prigionieri dovrebbe essere scarcerato da Israele a fine settembre.

Non sembra esserci nulla di concreto dietro l’ottimismo di maniera del Segretario di stato John Kerry convinto che in «nove mesi» le due parti potranno raggiungere uno «storico accordo». A dirlo con franchezza qualche giorno fa è stato un protagonista degli accordi di pace di Oslo (1993), Yasser Abed Rabbo. «Non mi aspetto alcun progresso, a meno che non vi sia una pressione americana forte», ha detto Abed Rabbo rompendo il velo di riserbo che circonda i colloqui. D’altronde il tavolo del negoziato in corso assomiglia tanto a quelli inutili visti da venti anni a questa parte. Secondo la Associated Press, Israele ha “suggerito” la creazione di uno Stato palestinese con confini “mobili”, provvisori, sul 60% della Cisgiordania, lasciando intatti dozzine di insediamenti ebraici e basi militari. I colloqui sulle frontiere non sono proprio cominciati e le discussioni si concetrano quasi esclusivamente su questioni di sicurezza. Gli israeliani vogliono mantenere il controllo del confine della Cisgiordania con la Giordania, conservare stazioni di preallarme sulla cima delle colline e mantenere basi militari vicino al confine giordano. Un alto funzionario palestinese ha detto alla agenzia cinese Xinhua che Israele ha presentato 17 punti in gran parte su questioni di sicurezza. L’Anp di Abu Mazen avrebbe seccamente respinto qualsiasi presenza militare israeliana all’interno dello Stato palestinese ma si sarebbe detta pronta a valutare la creazione di uno Stato in “quattro fasi”. Del destino dei profughi palestinesi e dello status di Gerusalemme non si è discusso. Non è quello che abbiamo già letto e ascoltato inutilmente per venti anni?

Intanto nella Striscia di Gaza il dramma della popolazione civile si sta rinnovando, tra il perenne blocco israeliano e quello rinnovato da parte egiziana a seguito del colpo di stato militare che lo scorso 3 luglio ha deposto Mohammed Morsi. In qualità di capo dello stato e di esponente di primo piano dei Fratelli musulmani, Morsi aveva allacciato relazioni strette con i “cugini” di Hamas. Le nuove autorità egiziane hanno dato un brusco taglio a queste relazioni privilegiate. Non solo, accusano Hamas e i palestinesi di Gaza di offrire sostegno ai gruppi jihadisti che l’Esercito da oltre due mesi insegue e combatte nel Nord del Sinai. Accuse che il governo di Gaza ha negato con forza, senza successo. A pagare per questa nuova situazione sono stati subito i civili, che ora devono fare i conti con l’apertura occasionale del valico di Rafah, unica porta sul mondo per chi vive nella Striscia.

Qualche giorno fa allarmato dai lavori di livellamento intrapresi da ruspe militari egiziane lungo il confine, il governo di Hamas ha criticato l’Egitto che si appresta a realizzare in quell’area una “zona cuscinetto”, in modo da bloccare i movimenti di persone, merci (e armi) lungo le gallerie sotterranee che collegano il Sinai a Gaza. «Le zone cuscinetto sono superflue fra Paesi amici, legati da vincoli storici», ha commentato Ihab al-Ghusein, un dirigente di Hamas. Secondo il sito palestinese al-Ray, i militari egiziani hanno fatto saltare in aria 13 abitazioni utilizzate come sbocco di tunnel di contrabbando per approntare lungo il confine  una fascia di terra larga 500 metri, lunga 10 km, sgombera di edifici e di vegetazione. L’Egitto ha anche proclamato un divieto di pesca vicino ai suoi confini marittimi, complicando ulteriormente la vita dei pescatori di Gaza.