La Corte nella società, diario di un’evoluzione
Scaffale "Storie di diritti e di democrazia. La Corte costituzionale nella società" di Giuliano Amato e Donatella Stasio, per Feltrinelli. Nel volume, «i viaggi» della Consulta attraverso il Paese
Scaffale "Storie di diritti e di democrazia. La Corte costituzionale nella società" di Giuliano Amato e Donatella Stasio, per Feltrinelli. Nel volume, «i viaggi» della Consulta attraverso il Paese
Non è frequente in Italia che al termine del proprio mandato i protagonisti che hanno vissuto nei palazzi dei poteri raccontino le proprie esperienze. Un genere di letteratura assai in voga altrove, negli Usa in particolare. Può essere considerato questo uno dei fattori che hanno garantito la permanenza nel nostro Paese di veri o presunti arcana imperii e che comunque hanno favorito il dilatarsi della distanza del popolo dalle istituzioni, percepite come troppo lontane, oscure nelle loro attività. Tra questi poteri oscuri v’è da annoverare anche quello della Consulta, che pure opera in nome e a difesa della Costituzione, ma non per questo si sottrae alla diffidenza popolare.
PER CERCARE DI COLMARE questo gap di conoscenza, e provare ad aprire Palazzo della Consulta alla piazza, viene ora pubblicato il volume di Giuliano Amato e Donatella Stasio (Storie di diritti e di democrazia. La Corte costituzionale nella società, Feltrinelli, pp. 280, euro 22), che si concentra sugli ultimi cinque anni di attività, in una stagione in cui la Corte si è messa in viaggio per l’Italia per farsi conoscere e per conoscere, con una serie di iniziative, ma anche di tecniche (la modifica delle norme interne che reggono il processo), di decisioni (o di rinvio delle stesse), di modalità di porsi e proporsi che sono tutte raccontate in modo semplice nelle pagine del libro.
Non mi dilungherò sui fatti raccontati: i viaggi svolti dalla Corte dentro le scuole e dentro le carceri; alcune decisioni prese nell’ultimo periodo di particolare pathos sociale (dal suicidio assistito all’ergastolo ostativo, dalla maternità surrogata al doppio cognome dei figli); né insisterò sugli sforzi di diffondere la cultura costituzionale tramite i nuovi strumenti informatici: i podcast; ovvero utilizzando i vecchi strumenti di intrattenimento: il film sugli incontri tra i giudici e i detenuti; non prenderò in considerazione neppure i comunicati stampa appena assunte le decisioni e che precedono la stesura e poi il deposito delle sentenza: un vero nuovo genere letterario.
Per questo consiglio la lettura diretta. Vorrei qui limitarmi a svolgere una considerazione ed esprimere un dubbio. La prima riguarda i «viaggi» organizzati in questi cinque anni. Fatemi dire che credo che mandare i giudici della Consulta in carcere sia stato utile, un’esperienza formativa, più per i giudici stessi che non per i carcerati. Sì certo, molti detenuti hanno visto entrare nelle loro celle chiuse al mondo una giustizia dialogante, e già questo è un risultato; e poi tutti coloro che hanno visto il film hanno imparato a conoscere una realtà spesso distante, rifiutata pregiudizialmente, condannata moralisticamente; riuscendo finalmente a percepire il senso e il valore che deve darsi alla funzione rieducativa della pena ex art 27 della Costituzione, ed anche questo è un risultato. Ma credo che i maggiori beneficiari siano stati i giudici che si sono resi conto di cosa voleva dire decidere sulla libertà personale di persone concrete, quali effetti avrebbe prodotto una loro decisione sulla concessione o meno dei permessi premio o sulla libertà dal carcere o in carcere.
La verità è che andare nei luoghi della sofferenza dovrebbe essere un obbligo per chiunque eserciti un potere, per chiunque debba poi decidere per la vita degli altri. I giudici, ma anche il mondo della politica che farebbe bene a frequentare di più le carceri, la realtà della fatica e del dolore nei quartieri degradati e nelle istituzioni totali. Per questo, guardando al futuro e prendendo insegnamento dall’esperienza che ci viene raccontata da questo libro, auspico che la prossima Corte organizzi altri viaggi negli ospedali, nelle fabbriche, nei luoghi di detenzione amministrativa dei migranti, ovunque i diritti delle persone e la loro dignità devono essere protetti. Protetti anche tramite decisioni costituzionali coraggiose prese da giudici non soggetti alla pressione populista, non condizionata dalla volontà di compiacere i peggiori istinti, spesso urlati da un popolo scomposto, ma deliberazioni fondate sulla ragione della legge e la realtà dei diritti calpestati. Di questi tempi c’è da auspicare che la Corte costituzionale possa porre un freno al dilagante egoismo nei diritti e portare la giustizia in nome della Costituzione e nel rispetto della dignità degli ultimi e di chi soffre.
C’È CHI HA CRITICATO questi viaggi, la spettacolarizzazione prodotta con film e podcast, la banalizzazione che in qualche modo è imposta dal mezzo che rischia di fare agio sul messaggio, accusando la Corte di andare alla ricerca di un facile consenso. Penso che cercare il consenso costituzionale, fare proselitismo costituzionale sia un dovere che spetta ai giudici, ma fors’anche ai titolari di poteri politici governanti che traggono la propria più profonda legittimazione, prima ancora che dal consenso elettorale, dal consenso alla Costituzione. In Germania si chiama patriottismo costituzionale, ed è un dovere civico.
DA ULTIMO, IL DUBBIO. Mi chiedo se la Corte non sia rimasta la sola tra le istituzioni a credere alla Costituzione. Da sola con l’altro garante, ovviamente, il Presidente della Repubblica. Non che le istituzioni della Repubblica siano diventate d’improvviso tutte ostili alla Costituzione o refrattarie al suo rispetto, mi pare però che non sia in uso prenderla troppo sul serio. Un dubbio che mi assale, ad esempio, quando vedo come sono andati a finire gli sforzi del Palazzo della Consulta di porsi come interlocutore degli altri organi di governo, del Parlamento in particolare. Inascoltati i moniti, s’è passata a nuove tecniche processuali per istituire un serrato dialogo con il legislatore. Per tre volte la Corte, pur manifestando non solo l’incostituzionalità della norma sottoposta al suo giudizio ma anche le vie per evitare il vuoto normativo o un intervento additivo che non sarebbe stato risolutivo, ha rinviato a data certa la decisione, lasciando un anno e poi nell’ultimo caso ancor di più e più volte, per permettere al Parlamento di intervenire e dire la sua.
La Corte ha chiamato, ma il Parlamento ha taciuto, guardando altrove. Ovvero nell’ultimo caso – il peggiore da questo punto di vista – ha fatto rispondere al Governo aggravando – se era possibile – la situazione di fatto. Almeno questa è la mia opinione con riferimento ai casi Cappato, responsabilità dei giornalisti ed ergastolo ostativo. «Il Parlamento non ha fatto nulla» commenta Amato, io aggiungo: e quando ha fatto, ha operato per il peggio. Quanto reggeranno da soli la Corte e il Presidente della Repubblica a difesa di principi della Costituzione? Domanda inquietante ma che vale la pena porsi.
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