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La Corte Costituzionale riapre la battaglia per la stabilizzazione dei precari

La Corte Costituzionale riapre la battaglia per la stabilizzazione dei precari

Scuola In più di 100 mila attendono il parere della corte di giustizia Ue

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 20 luglio 2013

C’è una guerra silenziosa che si svolge dietro i banchi di scuola. È quella che contrappone lo Stato italiano e i precari «storici», oltre 100 mila persone tra docenti e bidelli che ogni 31 agosto sperano di essere ripescati dalle graduatorie per avere un contratto a tempo determinato di un anno o, in alternativa, uno «spezzone» di cattedra che duri qualche mese. È la battaglia per il diritto ad avere un reddito stabile da parte dei «precari» contro il risparmio sul costo del lavoro attraverso la spending review, il blocco del turn-over e il sogno neoliberista di uno «Stato minimo» inseguito sin dalla fine degli anni Novanta.

L’ordinanza 207 della Corte Costituzionale, depositata giovedì 18 luglio, riporta le cifre della guerra in corso: nel 2007 i precari plurititolati, con alle spalle anche più di un concorso, sospesi tra la disoccupazione e un posto a termine, erano 233.886. Nel 2012 erano già diminuiti a 125.934. Nel prossimo triennio saranno ancora di meno. La causa principale di questa decimazione sono i tagli da 8,5 miliardi di euro alla scuola dal 2008 daTremonti e Gelmini. E poi ci sono anche gli effetti della riforma Fornero delle pensioni che, come alla fine ha ammesso anche il ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza in un’intervista a Repubblica Tv due giorni fa, dimezza le assunzioni dei docenti e del personale Ata stabilite dalla Gelmini con un piano triennale nel 2011.
Duplice sarà il risultato: da un lato, la riforma costringerà il personale in età da pensione a restare in servizio. Dall’altro lato, prolungherà di decenni una delle anomalie della pubblica amministrazione italiana: le graduatorie con migliaia di docenti che vantano un diritto all’assunzione rifiutato dallo Stato per motivi economici, contravvenendo sia al dettato costituzionale che alla direttiva europea numero 70 del 1999 che proibisce la reiterazione dei contratti a termine oltre 36 mesi da parte dello Stato. Un’abitudine che conviene anche al governo Letta. Nel Dl lavoro in attesa di conversione al Senato si contravviene alla stessa direttiva sull’«acausalità» dei contratti a termine. Questo significa che la situazione dei precari della scuola riguarderà presto tutti i precari italiani.

L’ordinanza della Corte Costituzionale rovescia una decisione presa dalla Cassazione nel 2012 (sentenza 1027) e chiede alla Corte di giustizia dell’Unione Europea di esprimersi sulla stabilizzazione di chi lavora da tre anni in maniera continuativa. La Cassazione aveva difeso la legge 106 del luglio 2011 con la quale il governo Berlusconi aveva aggirato la direttiva europea. Una norma che ha subìto negli ultimi tempi un vero bombardamento da parte di migliaia di docenti che hanno ottenuto dallo Stato risarcimenti da centinaia di migliaia di euro. Se la pregiudiziale sollevata dalla Consulta verrà giudicata ammissibile, le norme ideate dallo Stato per disattendere al suo mandato saranno ufficialmente incostituzionali, così come le politiche adottate dai governi di ogni colore che hanno creato l’esercito di riserva dei precari di Stato.
Il ricorso alla Corte Europea per la stabilizzazione è il cavallo di battaglia di un piccolo, ma combattivo, sindacato della scuola, l’Anief di Marcello Pacifico. «Speriamo di porre fine alla piaga del precariato e di stabilizzare i supplenti sui posti vacanti o disponibili» ha detto Pacifico. Per lui non bastano le 15 mila assunzioni promesse dalla Carrozza e nemmeno gli 11.542 docenti che vinceranno il «concorsone» senza però che ci siano i posti a disposizione per assumerli. Dello stesso parere sono altri sindacati della scuola, come la Gilda e la Flc-Cgil.

Conteranno qualcosa questi pronunciamenti in una democrazia condizionata dai dettami dell’austerità, peraltro in attesa di subire tagli epocali, privatizzazioni e svendite del suo patrimonio per ridurre il debito pubblico di 45 miliardi all’anno per i prossimi venti? Probabilmente no, ma per il momento l’ ordinanza della Consulta ha stabilito il principio per cui lo Stato non può disattendere alle «finalità di politica sociale» in nome del «risparmio delle risorse pubbliche».

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