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La correttezza politica spegne la forza cognitiva

La correttezza politica spegne la forza cognitivaWilliam Kentridge, «La Vittoria va in rovina», particolare del fregio Triumphs and Laments realizzato dall’artista sudafricano a Roma, lungo le sponde del Tevere, nel 2016

Classico e Cancel culture: fondamenti Davvero Omero ed Euripide sono dei «segregazionisti», cioè un pericolo per gli studenti? Un’ondata moralista si abbatte dall’America sulle «nostre» basi culturali

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 28 agosto 2022

Una nuova polemica tra antichi e moderni ha preso le mosse dagli Stati Uniti e ha raggiunto le sponde del vecchio continente. L’attuale querelle si inscrive all’interno del fenomeno che va sotto l’etichetta di Cancel culture. Due sono le direttrici principali attraverso le quali l’attacco ai classici (non solo antichi) procede. Anzitutto i testi greci e latini sono additati in quanto portatori di contenuti razzisti, sessisti e violenti. Secondo alcuni, tali opere vanno cassate. Altri si accontentano di proporre che esse debbano essere precedute da avvertimenti (i cosiddetti trigger warning) e accompagnate da commenti edificanti. Un vasto repertorio di testi è sottoposto a questo doppio possibile trattamento: dall’Iliade e dall’Odissea di Omero all’Ippolito, all’Ecuba e alle Baccanti di Euripide fino alle Metamorfosi di Ovidio. Il secondo aspetto portante della polemica investe il ruolo degli studi classici e il modo in cui la cultura greco-romana sarebbe stata complice in forme di sopraffazione quali la schiavitù, la segregazione, la supremazia bianca, il genocidio culturale e l’esercizio patriarcale del potere. Qualcuno precisa che il valore originario del termine cancel è «chiamarsi fuori». Tuttavia, è innegabile che nella realtà dei fatti la parola si traduce in atti di cancellazione e marginalizzazione.
È chiaro che le ragioni e il livello del contrasto variano in rapporto alle diverse realtà sociali e geoculturali. L’impatto negli Stati Uniti, anche sulla spinta di gravi fatti di attualità, è molto forte. Sempre più pressanti sono gli effetti del dibattito in Inghilterra. Decolonizzare gli studi classici, risarcire le colpe del passato e promuovere attività di educazione in Equality and diversity sono le parole d’ordine nelle facoltà di Classics. In Italia e in altri Paesi europei, per evidenti ragioni di sfondo storico, le conseguenze finora sono limitate. Le reazioni oscillano tra l’incredulità e il sussiego. Tuttavia, non pare lungimirante ignorare il tema, e non solo per la ragione concreta che siamo soliti importare tendenze, valori e modelli formativi sia scolastici sia universitari dal mondo anglosassone (il principio di decolonizzazione culturale potrebbe estendersi al presente) e che segnali importanti del nuovo orientamento sono già attivi presso di noi. La controversia coinvolge un argomento complesso quale i meccanismi selettivi di conservazione e rimozione della memoria storica. La polemica raccoglie, pur nella discutibilità della risposta, istanze profonde che scaturiscono da fenomeni epocali e non eludibili quali la mondializzazione e il movimento all’inclusione.
La questione appare viziata da un’illusione ottica di base. Sembrerebbe superfluo ribadire che tutto ha un contesto d’origine, e diversi sono i contesti nei quali ogni cosa continua a vivere. I greci e i romani non rappresentano modelli sempiterni da imitare, ma uomini come noi, condizionati dall’orizzonte del proprio tempo. Giudicare gli antichi con i parametri dell’attualità è una banalizzazione violenta nel segno della dittatura del presente sul passato, ma anche sul futuro. Imporre ai greci e ai romani di essere come noi, pena la loro emarginazione o cassazione, è un atto di etnocentrismo storico che si sviluppa sull’asse del tempo e non diverso dall’imperialismo che critichiamo nella dimensione del presente. Il presupposto è suprematistico: noi siamo i migliori e i nostri valori vanno imposti, persino a coloro che non hanno potuto praticarli o conoscerli. È un po’ come criticare gli antichi perché non si curavano con gli antibiotici o non usavano l’automobile.
Che alcuni testi classici siano stati strumentalizzati per giustificare fenomeni di prevaricazione è un fatto da portare alla luce, analizzare e condannare. In Italia ne sappiamo qualcosa, se si pensa all’appropriazione strumentale della «romanità» da parte del fascismo. Tuttavia, non si può non notare che la Bibbia, il Corano e molti altri testi o, se usciamo dalle culture del libro, anche i miti e i racconti tradizionali sono stati usati, dentro e fuori la western culture, per legittimare violenze, occupazioni, oppressioni. E sarebbe fin troppo facile osservare che alcuni tra i diritti su cui si basano le rivendicazioni degli oppositori dei greci e dei latini non esisterebbero se non ci fossero stati proprio i greci e i latini.
È un dato di fatto che da tempo ormai negli studi classici i greci e i latini sono «senza miracolo» e che sempre più intensa è l’interazione con altri campi della ricerca, in particolare gli studi sulle culture del Mediterraneo antico. Di fronte ad alcune interviste, si ha l’impressione di classicisti che odiano i classici. Certo, fin dai tempi di Anacreonte e Catullo l’odio va in coppia con l’amore, ma non ci si dovrebbe meravigliare poi se i corsi di studio in Classics chiudono per mancanza di iscritti, dal momento che il messaggio trasmesso è di discipline a odiosa e inaccettabile base razzista, sessista e colonialista. In certi ambienti, tra i giovani, studiare i classici può essere vissuto persino con imbarazzo. Non mancano neppure professori prudenti a trattare l’argomento in pubblico, meno in privato. C’è aria, non bisogna nasconderselo, di stigma sociale e di censura.
Ma davvero Omero, Euripide e Ovidio possono essere considerati complici dei segregazionismi e un pericolo morale per giovani (e meno giovani) lettori? Si è improvvisamente esaurita la carica di umanità e di immaginario che ha fatto arrivare questi capolavori fino a noi attraverso i secoli e che portava Charles Péguy a dire: «Omero è nuovo stamattina e niente è forse così vecchio come il giornale di oggi»? Ma, soprattutto, ridurre l’opera letteraria a un repertorio di correttezza etica e politica (che inevitabilmente si trasformerà in scorrettezza al variare dei contesti) non equivale a negare l’essenza stessa della letteratura, la sua forza creativa e cognitiva? L’arte è rappresentazione della realtà, ma anche capacità di andare oltre le barriere della propria condizione, fino a raggiungere luoghi dove normalmente non ci addentriamo. E per fortuna, bisogna aggiungere, perché può trattarsi di luoghi non privi di rischi, ma non per questo meno umani e necessari all’esplorazione del noi e dell’io.
Un resistente filo storico ci lega all’antichità classica, ma le grandi trasformazioni sociali e di pensiero di due millenni e più, le rivoluzioni tecnologiche, scientifiche ed economiche hanno creato una significativa distanza. I grandi testi del passato obbligano a un confronto di alterità nella continuità, tra analogie profonde e differenze vistose. Se il gioco di immedesimazioni e proiezioni è un fattore tanto essenziale quanto attrattivo del processo letterario, non meno produttiva è la consapevolezza delle differenze, perché solo dal confronto e dalla diversità scaturisce il nuovo. I classici ci aiutano a guardare con altri occhi ciò in cui siamo immersi. La novità che essi stimolano non è la novità attesa e scontata, indotta dalla spinta incessante ai consumi e alla corsa tecnologica, ma, come spiegato da Italo Calvino in Perché leggere i classici?, una vera sorpresa. Ridurre gli antichi a simulacri belli o brutti dell’attualità non aggiunge nulla né alla comprensione del presente né a quella del passato. Si può e si deve dialogare con i classici anche per prendere le distanze dai loro paradigmi.
«I grandi classici – ha scritto Alberto Asor Rosa in Letteratura italiana. La storia, i classici, l’identità nazionale – vanno alla radice delle cose, esplorano, sommuovono le profondità dell’essere, come un aratro che rovescia le zolle e ne mostra il lato a lungo nascosto». I classici non forniscono modelli di comportamento né soluzioni preconfezionate e accomodanti. Più che dare risposte essi mettono a nudo – attraverso l’efficacia, il valore e la bellezza non comuni dei loro linguaggi espressivi – il nucleo duro di questioni fondamentali. L’Orestea di Eschilo non propone un modello dei rapporti familiari, ma ha la capacità di far esplodere con forza impressionante alcuni tra i più oscuri nodi che l’istituzione familiare porta in sé. Né la tragedia di Medea offre una soluzione da condividere quanto invece una potentissima drammatizzazione della solitudine sociale e umana.
L’incapacità di dialogare con i contesti e un certo conformismo critico sono i principali fattori che inducono al boicottaggio moralistico dei classici. Non deve sfuggire che l’attacco intollerante determina il rischio di lasciare questo straordinario patrimonio culturale nelle mani di chi vuole farne un uso strumentalmente e tendenziosamente identitario. La segregazione dei classici è un’operazione miope che annichilisce la memoria, chiude il presente in un recinto e inaridisce il futuro.

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