Cultura

La contaminazione dell’ascolto

La contaminazione dell’ascoltoParticolare da un'opera dell'artista canadese Guy Laramee

Itinerari critici A proposito del volume «II caviale e i fichi. Scritti di letteratura» di Donatello Santarone per Bordeaux. Un percorso che unisce Dante a Brecht, Zanzotto a Tasso, Fortini a Saro-Wiwa, Goethe a Cases e Mengaldo. Cases, in compagnia di Fortini, osserva la questione da un punto di vista antispecialistico che oggi, soprattutto se travisato, farebbe storcere il naso a molti. Autori africani come Ken Saro-Wiwa e Buchi Emecheta consegnano romanzi che narrano movimenti collettivi di uomini e donne che si misurano con i conflitti del loro tempo

Pubblicato più di un anno faEdizione del 13 giugno 2023

L’attenzione all’Altro. In questo gioioso, sciasciano cruciverba che è l’ultimo libro di Donatello Santarone (Il caviale e i fichi. Scritti di letteratura, Bordeaux, pp. 367, euro 24), cos’è che in fondo unisce Dante a Brecht, Zanzotto a Tasso, Fortini a Saro-Wiwa, Goethe a Cases e a Mengaldo? L’attenzione estrema, e anche sofferta, verso l’Altro. La dimensione reale, e non retorica, dell’ascolto. La pedagogia dell’interrogazione. «Chi domanda/ si merita una risposta», dice il Saggio al ragazzo che, in una poesia di Brecht, cocciutamente lo interpella. Ma in un’eco per nulla lontana ecco Zanzotto che, nella sua Ecloga IX Scolastica, scrive: «Io forse insegno a tollerare, a chiedere/ ciò che illumina/ più nel chiederlo che nella risposta». Sporgersi verso il diverso è il modo più ricco di senso per conoscere se stessi. Attraverso il mondo. Ce lo hanno insegnato i veri classici, quelli che non hanno paura di scegliere cosa tramandare. «Scegliendo e scartando», amava ripetere Cesare Cases.

Santarone ripercorre dunque alcuni di questi attraversamenti con l’umile attenzione di chi vuole e sa ascoltare. Sfogliando queste densissime pagine possiamo di nuovo riflettere sul miope ostracismo che in passato si esercitò verso qualsiasi ipotesi di contaminazione culturale fra il poema sacro della Commedia dantesca e opere provenienti dal mondo arabo-islamico. Oppure possiamo riassaporare la generosa apertura narrativa della Gerusalemme liberata al mondo «altro» e lontano delle Isole Fortunate, utopici luoghi di un’età dell’oro che nonostante tutto esiste e resiste, lì oltre le famigerate Colonne d’Ercole dei noti limiti umani. E possiamo apprezzare le osservazioni e le riflessioni del Fortini viaggiatore, a metà anni Cinquanta, nella Cina «allegorica» della rivoluzione di Mao.

SPOGLIATOSI ante litteram di ogni residuo «orientalista», Fortini sottolinea come in questo paese si sia prodotto «uno sconvolgimento e un conflitto che ha mutato la sorte di più generazioni e si è posto come esempio alla parte più oppressa e più umiliata del mondo». Ma quali sono i paesi allegorici di oggi, in cui le contraddizioni massime si manifestano nel modo più radicale? Leggendo il libro di Santarone possiamo rispondere che uno di questi è certo la Nigeria raccontata da eccezionali narratori come Ken Saro-Wiwa e Buchi Emecheta. Questi autori, qui presenti con i romanzi Sozaboy (1985) e Cittadina di seconda classe (1974), ci consegnano delle testimonianze di una letteratura non autoreferenziale o grottescamente issata sull’ombelico dell’individuo, ma aperta all’avventura, e alla tragedia, della storia e dei movimenti collettivi di uomini e donne che si misurano con i conflitti del loro tempo. La questione sempre attuale dell’emigrazione, dovuta molto spesso alla scientifica spoliazione di popoli e risorse da parte dell’opulento mondo occidentale, e il tema ad essa connesso delle guerre per il petrolio, che precipitano gli uomini nella barbarie più feroce, sono al centro di questi due scomodi capolavori, in cui la rappresentazione delle vicende dei singoli è sempre abilmente innestata sull’analisi, addirittura sconcertante per l’impietoso grado di verità, dei rispettivi contesti storici e sociali.

UNO DEI BANCHI DI PROVA di tale analisi è, ovviamente, la lingua. Lo è quando in essa si annida, per Emecheta, quella falsa coscienza che trasforma il linguaggio delle élites politiche nigeriane, colpevolmente subalterne ai loro signori occidentali, in un ironico «gergo raffinato» brechtianamente incomprensibile ai più. Ma lo è anche quando, al contrario, Saro-Wiwa sceglie per il suo romanzo di adoperare come mezzo espressivo un «rotten english», ovvero un inglese totalmente spurio, sincero, corroso com’è da una felice oralità e ibridato dalla voce degli oppressi. D’altronde anche il punto di vista narrativo di Sozaboy appare costruito attorno al suo ingenuo protagonista popolare, da cui volutamente lo scrittore, e il suo traduttore italiano, si «fanno parlare».

Come ha osservato un altro grande narratore africano come Wole Soyinka, citato da Santarone, «la tigre non ruggisce in endecasillabi». Non è giusto dunque accostarsi a queste letterature non europee tramite lenti prefabbricate, molate nel pregiudizio e nello stereotipo. Si rischia di non comprendere, reiterando quella dinamica classista inscenata da Brecht in Il nuovo dialetto, e opportunamente richiamata da Santarone, per cui «A colui che ascolta il gergo incomprensibile/ manca il mangiare./ A colui che lo parla/ manca la capacità di ascoltare». E siamo ancora alla questione dell’ascolto e dell’attenzione, che era «la prima delle qualità», secondo Goethe citato da Cases.

SCORRIAMO quindi l’ultimo capitolo del libro, dedicato all’ironica e affilata polemica di Cases contro la critica «logotecnocratica», asetticamente trincerata dietro schematismi formalistici astratti, che impoveriscono l’esperienza della lettura. L’ambito d’intervento è ancora una volta quello carissimo a Santarone della scuola e della didattica della letteratura. Cases, in compagnia di Fortini, osserva la questione da un punto di vista antispecialistico che oggi, soprattutto se travisato, farebbe storcere il naso a molti. Il nucleo centrale è l’esperienza dell’alterità. Dice Cases: «Proprio ciò che è indispensabile per la costituzione dell’esperienza, e cioè la conoscenza sommaria, frammentaria, episodica, superficiale, quindi in qualche modo distorta ma ugualmente illuminante e destinata a correggersi e ad approfondirsi integrandosi con altri nessi del processo del sapere, viene diffamato e respinto».

In questi «altri nessi», evocati con lucida chiaroveggenza dal saggista, risiede esattamente la pietra dello scandalo odierno, in un momento in cui «cultura» diventa tutt’al più sinonimo di fruizione passiva e omologante di format monolitici, ripetitivi, ed infine «autoritari» nella loro sostanza di merci confezionate ad usum Delphini. Merce, che è il contrario della poesia intesa come totalità. E qui Santarone riprende un passo decisivo di Fortini: «proprio della parola poetica è rivolgersi a tutto l’uomo, non all’uomo «poetico», di essere una allegoria di totalità che parla a una totalità».

BEN VENGA DUNQUE il richiamo concreto di Santarone – richiamo che innerva tutti i rivoli di questo libro – all’esercizio attivo dell’ascolto, che nella pratica critica dello studioso si traduce, tra l’altro, in almeno un tratto peculiare: la capacità di citare gli altri. Sono infatti tantissime, e sempre intriganti per la consapevole intelligenza con cui vengono selezionate e poi collegate fra loro, le citazioni dagli scrittori e dai pensatori messi in dialogo e in frizione. Di certo queste pagine sarebbero piaciute al brechtiano signor Keuner, che si lamentava, con caustico paradosso, di vivere in un paese «di cultura tanto povera che di continuo vi si pubblicano nuovi libri e più nessuno vi è capace di comporre opere di sole citazioni».

Fortini ha ricondotto questo passo alla questione capitale del sapere sapienziario e dell’eredità: «Non c’è eredità senza eredi, non si è eredi se non si sa di esserlo». Non c’è caviale, senza i fichi.

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