Alla filosofia non possiamo sottrarci, su tutto è necessario filosofare, diceva Aristotele, e anche chi ne nega il valore lo può fare solo filosofando. Dunque perché non sottoporre all’indagine filosofica anche quella dimensione dell’umano che pare sottrarsi a qualsiasi disegno logico, vale a dire il sogno?
A questa domanda e alla sfida che la sottende ha fornito una risposta persuasiva e dai tratti originali il libro di Gianluca Garelli Sogni di spiriti immondi Storia e critica della ragione onirica (Einaudi «PBE», pp XXVI-443, e 27,00). Una domanda e una sfida non nuove, se già Platone e Aristotele si erano posti il problema di stabilire quale sia lo statuto del sogno nell’economia delle nostre vite, quale rapporto leghi il sonno alla veglia e quale sia il significato della sospensione della coscienza nella dimensione onirica.
La lunga gittata diacronica del libro di Garelli ci restituisce una molteplicità di risposte nate in contesti di discussione molto diversi, non necessariamente filosofici; spesso, anzi, emergono dall’ambito letterario, a riprova del fatto che di ragione onirica si possa e si debba parlare, se vogliamo capire di cosa è fatta la soggettività umana. A tutta prima l’espressione ‘ragione onirica’ appare un ossimoro: come si concilia la ratio con il sogno, le geometrie del ragionare con le discontinuità casuali e l’avvicendarsi caotico e imprevedibile delle nostre visioni notturne? Se il fine della pratica filosofica è la conoscenza, che tipo di conoscenza si dà nel sogno?
Sappiamo che a quest’ultima domanda Freud ha fornito una risposta quanto mai esaustiva individuando la funzione ‘archeologica’ del sognare, quella che può suggerirci, se interpretiamo correttamente i reperti affiorati, quali sono le cause delle nostre sofferenze psichiche o delle nostre anomalie comportamentali. Ma assai prima dell’ermeneutica freudiana, il problema se sia e quanto sia reale l’esperienza onirica ha impegnato indovini e profeti, ma ancor più narratori e poeti e in genere tutti coloro che hanno voluto mettere in scena il superamento dei limiti della propria contingenza per progettare vite alternative in mondi possibili. Non c’è quindi da stupirsi che il sogno, come diceva Borges, possa essere inteso come il genere letterario più antico, dove i ruoli si confondono e lo spettatore è nello stesso tempo l’attore e l’autore.
Il sogno, osservato dalla specola delle sue rappresentazioni mitopoietiche, è l’alterità radicale che sprigiona un potenziale sovversivo rispetto al senso del reale a cui siamo necessariamente costretti nella condizione di veglia. La letteratura è lo spazio in cui l’impossibile si rende possibile, in cui dal nostro mondo si entra in un mondo nuovo, radicalmente altro, non diversamente dal viaggio oltremondano di Dante fino a quello di Alice nel Paese delle Meraviglie.
L’autore di questo libro, che conosce bene Hegel – sua un’eccellente traduzione della Fenomenologia dello spirito – ne ha assimilato la convinzione che la conoscenza si dà per opposizione, guardando le cose dal loro contrario. Per capire dunque quale sia stato il ruolo che la dimensione onirica ha svolto nel pensiero occidentale, è bene vedere come essa abbia interagito con le certezze della filosofia sistematica e come abbia minato spesso – al pari di un fiume carsico – le fondamenta su cui tali certezze erano costruite. Per questa via Garelli individua nel pirronismo, ossia nella tradizione dello scetticismo filosofico, l’alleato più fedele e partecipe delle qualità che definiscono la dimensione onirica, vale a dire l’impossibilità di qualsiasi certezza e l’imprevedibilità del nostro destino. Laddove l’ottimismo della ragione si infrange di fronte alla miseria della natura umana, si aprono gli spazi di una riflessione all’insegna del pessimismo antropologico, il cui testimone più autorevole e influente fu Montaigne.
Interessanti sono le pagine che Garelli dedica alla ricezione implicita – ma talora persino dichiarata – di Montaigne da parte di Shakespeare. Se si osserva la sua drammaturgia dalla specola dell’autore degli Essais, essa appare come una grandiosa messa in scena di un copione scettico sulle sorti della razionalità umana in balia della tempesta delle passioni. Una razionalità che appare impotente dinanzi al dilemma di una vicenda notturna come quella che si consuma nel Sogno di una notte di mezza estate dove «l’idea barocca di un teatro del mondo si intreccia a quella della vita stessa intesa come sogno».
Cornice barocca e senso della vanitas raggiungono il loro culmine nel dramma dell’indistinzione per eccellenza tra il sonno e la veglia, in La vida es sueño di Calderón de la Barca, che mette in bocca a Sigismondo la celebre frase che conclude il suo monologo nel II atto: «Che è la vita? Frenesia? Che è la vita? Illusione? Solo un’ombra, una finzione, e il maggior bene, un bisogno del nulla, la vita è un sogno e i sogni sogni sono».
Gli spiriti immondi del titolo del libro di Garelli sono la materia profonda, tellurica e oscura delle nostre vite, sono, come scriveva Foucault, la condizione stessa della nostra immaginazione. Perciò ricostruirne la filogenesi all’interno della cultura occidentale significa spazzolare contropelo la storia della filosofia per individuarne gli snodi critici dove l’illuminismo si rovescia nel suo opposto. Come ha scritto Benjamin, lungi dall’essere una mera espressione della natura dell’uomo, «il sognare partecipa della storia» e non certo solo di quella della filosofia o della letteratura ma della storia tout court. Ecco perché nell’età del disincanto borghese «sul fiore azzurro non si fanno davvero più sogni e chi si sveglia come Enrico di Ofterdingen deve aver dormito troppo». L’età che si inaugura alla fine dell’Ottocento, quella che chiamiamo la seconda Modernità, ha ormai banalizzato il sogno addomesticando la sua alterità radicale e il suo potenziale eversivo. Sembra quasi che alla soglia del Novecento si siano aperte due strade antitetiche: quella della psicoanalisi che, mossa da una ratio medica, esplora il funzionamento della psiche, e quella della normalizzazione borghese del fantastico. Citando ancora Benjamin: «il lato che la cosa volge al sogno è il Kitsch».
Se per Pascal l’uomo «non è che una canna, la più debole della natura», sebbene pensante, l’uomo che sogna oppone alla sua debolezza, anziché il pensiero, la forza dell’immaginazione, della fantasia, l’associazione degli eidola. In questo quasi eroico ed eversivo sottrarsi alla razionalità strumentale – quella che il capitalismo ha elevato a ideologia universale – il sogno finisce per acquistare una sua valenza di utopia politica che certamente nessun partito sarebbe disposto a sposare, ma che nei territori dell’arte trova ancora, a un secolo di distanza dal surrealismo, una sua precisa ragion d’essere, o per usare l’espressione di Garelli, una sua solida ‘ragione onirica’.