La condizione umana in una dimensione spettrale: Kafka riscoperto
Prima che Beckett in En attendant Godot elevasse la condizione dell’attesa a cifra esistenziale di un’era postmetafisica, nei primi decenni del Novecento questo era apparso a molti come l’unico atteggiamento adeguato in un mondo ormai svuotato di senso. Per Siegfried Kracauer costituiva la sola strategia per sfuggire alla doppia morsa dello scetticismo radicale, che isola dal mondo, e della speranza cieca di redenzione che cade facilmente vittima dell’ideologia. Nel vuoto di senso della modernità, l’unico possibile atteggiamento è – tanto per Kracauer quanto per il Simon Tanner di Robert Walser – una interminabile attesa davanti a una porta chiusa, dove altro non si può fare se non tendere l’orecchio.
I motivi dell’attesa infinita e della irraggiungibilità di una meta che sembra coincidere con una vita più vera, sono cruciali anche nelle opere di Franz Kafka, in particolare nella raccolta di racconti Un medico di campagna, che esce oggi per Mondadori (pp. 144, € 12,00) in una nuova, eccellente edizione commentata di Luca Crescenzi, uno dei maggiori protagonisti della germanistica internazionale, che dirigerà la nuova edizione critica integrale degli scritti di Kafka in preparazione nei «Meridiani» dal 2024.
Composto da quattordici racconti – piccoli, scintillanti capolavori, scritti tra il 1914 e il 1917, e quasi tutti pubblicati da Kafka anche separatemente – Un medico di campagna esibisce una spiccata eterogeneità tematica e formale. Ma quando Kafka pubblicò in volume i racconti, nel 1919, seguì un piano compositivo ben preciso, che presiedeva già la loro composizione. Nel suo saggio introduttivo – un pezzo di alta scuola filologica ed ermeneutica – Crescenzi ricostruisce lo sfondo, le connessioni tematiche e figurali, i motivi conduttori e le fonti di ispirazione comuni, che fanno della raccolta un insieme coerente, un tutto che è più della somma delle sue parti, ovvero dei racconti che la compongono e che letti come frammenti di questo insieme rivelano significati del tutto inaspettati. Le due fonti scoperte dal curatore sono a dir poco sorprendenti: un libro in cui il celebre esploratore svedese Sven Hedin racconta il suo attraversamento dell’Asia, Da un polo all’altro (1911), e il Romanzo di Alessandro, più precisamente la profezia apocalittica contenuta nelle sue pagine. In un sogno Alessandro apprende che la terribile popolazione nomade da lui sconfitta e rinchiusa in una valle, un giorno si libererà, invaderà, e distruggerà il mondo.
Nelle pagine di Kafka tutto ciò è già avvenuto. Quegli invasori apocalittici si aggirano dunque al centro di un impero in sfacelo, incarnazioni dell’assolutamente altro con il quale non si può neanche comunicare, perché non in possesso di una lingua. La fine del mondo sembra dunque avere avuto inizio già da tempo, e tuttavia essa pare arrestata in un infinito differimento. Sulla soglia interminabile della fine dei tempi tutti sembrano consegnati a una condizione spettrale. Così, i motivi dell’attesa e dell’impossibilità di giungere a una meta si legano a quello del fantasma. Il mondo dell’apocalisse infinita è un mondo in cui le distinzioni tra essere e non essere, movimento e stasi, storia e leggenda collassano, mentre tempo e spazio possono subire imprevedibili dilatazioni e contrazioni, divenendo parametri non più misurabili.
Crescenzi fa notare come tante figure della raccolta sembrino sopravvivere alla propria morte, condannate a vagare infinitamente in uno spazio di non-vita. Altre sembrano invece preannunciare forma di esistenza future, non più umane, incomprensibili. Qualcosa di radicalmente nuovo sembra nascere; ma è un abbaglio: «La fine del mondo lascia intravedere i germi di un superamento che prelude al ritorno di ciò che è già stato. Il tempo finisce, ma il mondo ricomincia esattamente come prima». Intrappolato in «un solo ordine possibile», non può essere trasformato.
La condizione umana appare così in una dimensione spettrale. «Condannata a ripetere all’infinito il suo percorso sulla terra», senza che nessuna redenzione e nessuna salvezza possa mai interrompere l’eterno ritorno dell’uguale, l’umanità diventa un fantasma consegnato all’eterno presente, che non è pienezza dell’attimo bensì tormento della mancanza.
Siamo negli anni della prima guerra mondiale. All’enfasi apocalittica di tanti espressionisti, Kafka oppone – quale esempio impareggiabile e premonitore di una narrativa dell’estinzione – la sua abbagliante meditazione narrativa sulla modernità come epoca dell’apocalisse permamente e incompiuta.
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