In una luce di vetro trasparente e chiarissima, su un cavalletto, è poggiato un dipinto minuziosamente eseguito. Un paesaggio. In primo piano, lungo il bordo inferiore della tela una piatta duna verdolina. Non di sabbia, la duna, ma un tratto di litorale che diresti coperto d’una tenera erba novella che, appena poco fa, qualcuno ha accuratamente rasata e, compiuto con diligenza il suo lavoro, se ne è andato. In secondo piano un mare celeste increspato appena dalle creste bianche di onde che si spengono blande a riva. In terzo piano un cielo chiaro, terso, sgombro e pulito. Un’aria immobile, senza un refolo di brezza che, blando, sospinga le onde.

Torni allora ad osservare più attentamente la superfice marina e recepisci ora, non senza un filo di stupore, che quel fior d’acqua che si estende fino all’orizzonte, arriva lontano e tocca il cielo, è una superfice immobile, e scopri che quelle arricciature candide di spuma non procedono verso la spiaggia verde. Sono statiche, come le venature che corrono in certi marmi. La tela sul cavalletto è posta di fronte ad un arco che si apre su una duna verdolina che è in perfetta continuità con la duna dipinta, così come il mare che la lambisce a riva, là fuori, oltre l’arco, e che prosegue nel mare del quadro. E il cielo. Anche il cielo è lo stesso cielo della pittura e l’aria priva di movimento dell’uno si mantiene immobile nell’altra.

Del resto, sull’impiantito marrone, accanto al cavalletto c’è una sfera nera che ti induce a credere mai si sia mossa da quel punto, misteriosamente, proprio una sfera che, poi, tra i solidi geometrici, pare connaturata ed esposta ad esercitare le virtù degli spostamenti nello spazio (negli spazi, per meglio dire, e anche i siderali).

Ho descritto un’opera del pittore belga Renè Magritte (1898 – 1967) realizzata nel 1935 e intitolata La condizione umana II. Due anni prima, nel 1933, Magritte dipinge un quadro gemello, La condizione umana I, che si avvale del medesimo impianto compositivo e concettuale. Qui il cavalletto è posto davanti ad una finestra che si apre su un campo in un giorno di primavera. Il campo verdeggia e un sentiero lo attraversa. In cielo grandi e soffici batuffoli di nubi bianche sopra una collina lussureggiante di fitta vegetazione. E al centro del campo un albero fiorito. Con queste parole Magritte illustra La condizione umana I: «Misi di fronte a una finestra, vista dall’interno di una stanza, un quadro che rappresentava esattamente la parte di paesaggio nascosta dalla vista del quadro. Quindi l’albero rappresentato nel quadro nascondeva alla vista l’albero vero dietro di esso, fuori della stanza. Esso esisteva per lo spettatore, per così dire, simultaneamente nella sua mente, come dentro la stanza nel quadro, e fuori nel paesaggio reale. Ed è così che vediamo il mondo: lo vediamo come al di fuori di noi anche se è solo d’una rappresentazione mentale di esso che facciamo esperienza dentro di noi».

Magritte si avvale della metodica che, con termine francese è detta in pittura del trompe-l’oeil, ovvero, in italiano, ‘inganna l’occhio’. Nel suo prezioso Dizionario di termini artistici, Michelangelo Masciotta scrive riguardo ad un’opera che sia stata eseguita attenendosi puntualmente a un tale criterio: «Dipinto che riproduce degli oggetti o che crea delle prospettive con tale precisione e con tale evidenza visiva da indurre i riguardanti a credersi di fronte ad aspetti naturali, materialmente consistenti. L’inganno, che spesso raggiunge il livello più alto del lavoro artigianale, assai raramente rientra, per il suo eccesso di verismo, nel campo dell’opera d’arte». Questo di Magritte è un raro caso di ‘inganno dell’occhio’ che consegue un alto livello artistico.

In contatto con André Bréton, Renè Magritte aderisce nel 1925 al movimento surrealista impegnandosi in una ricerca pittorica che rendesse conto di certi convincimenti sull’arte, lucidamente espressi da Bréton, allorché sosteneva come in pittura realtà equivalga a luogo poetico ideale «dove la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l’incomunicabile cessano d’essere percepiti contraddittoriamente». Simultaneamente, piuttosto.