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La commessa riluttante

La commessa riluttanteBuster Keaton e Ruth Olly in Sherlock Jr

Habemus Corpus Ai tempi della furiosa globalizzazione ogni lavoro ha le sue stimmate, possono essere fisiche, psichiche o entrambe

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 19 luglio 2016

Ogni lavoro ha le sue stimmate. Possono essere fisiche, psichiche o entrambe, come mi ha raccontato una mattina la cassiera V. che chiamerò solo col nome puntato per evitarle rappresaglie. V. lavora da anni in un piccolo supermercato di quartiere che prima apparteneva a una catena italiana a conduzione familiare e poi è stato acquisito da un colosso della grande distribuzione francese. Il cambio di qualità si notò subito. Prima sostituirono il banco carne con il macellaio appassionato del proprio mestiere con vaschette preconfezionate. Poi la gastronomia cominciò a vagare fra tentativi di eccellenza e di esotismo per poi rassegnarsi a merce qualunque servita ogni volta da un salumiere diverso e spesso inesperto. Dopo ci fu il tracollo di frutta e verdura con insalate al limite del commestibile, finché il tutto si è assestato su un semicasino perenne con carrelli giganti di merce che sostano fra i bancali per mezze giornate in attesa che qualcuno li sistemi. Entri lì ed è evidente che i lavoranti sono poco felici e gratificati.

Quando le cose cominciarono a tracollare, V. chiese di cambiare punto vendita perché in quello avevano nominato una responsabile casinara e presuntuosa. V. non è donna che ambisce alla carriera, ma alla vita sì. Più volte i capi le hanno proposto di passare di grado e ogni volta lei ha rifiutato. L’ultimo diniego risale a pochi giorni fa. Le avevano chiesto di diventare vice responsabile del negozio dove lavora. Lei ci ha pensato su un po’ e poi ha detto di nuovo «Grazie no«. L’altra mattina, davanti a un caffè, mi ha spiegato perché.

«Sai, i capi ti fanno credere che diventare direttore sia chissà quale gratificazione, ma in realtà è una gran fregatura. Io adesso faccio un part time al 75% e prendo 1250 euro al mese che a me bastano perché non ho famiglia. Con il tempo libero che mi rimane riesco a fare tutte le cose che mi piacciono. Leggo, studio riflessologia plantare, vado in palestra e a ballare. Se avessi accettato la loro proposta avrei preso 200 euro in più al mese, ma lavorato 40 ore a settimana spalmate su 7 giorni, perché quelli tengono aperto fino alle 9 di sera anche la domenica, e un responsabile deve essere sempre disponibile, per cui finisce che non hai più tempo per te. Non ne vale la pena».

«Sai – continua V. – io vedo che vita fanno i direttori e non ho nessuna voglia di finire come loro. Appena li nominano sono tutti contenti perché hanno un ruolo e gli sembra di essere importanti. In realtà fanno una vita da poveracci, sempre sotto tensione, sempre e voler dimostrare di meritarsi quello che hanno. Così, i padroni, invece di pagarti di più quando ti chiedono di più, ti fanno credere che il premio è la nomina, e intanto la tua vita va a quel paese».

E come? «Eh – continua V. – dopo un po’ si ammalano tutti. Gli viene la diverticolite, la gastrite, il mal di schiena, sono sempre stressati, non dormono bene e tutto questo per 1600 euro al mese. E sono tutti uomini. Le donne non sono così disponibili a farsi imbambolare così».

La saggia V., che ha sempre più la mia ammirazione, conclude dicendo: «E poi ti chiedono anche la reperibilità perenne, così ti mandano sms anche di sera o fuori turno. Ma io li ho fregati». Ah sì? «Sì. Non ho più il cellulare, né il telefono fisso e nemmeno il computer e quindi l’email. Se vogliono dirmi qualcosa devono farlo lì sul lavoro, perché fuori non mi trovano mai. Quando gliel’ho detto hanno dovuto rassegnarsi.

Poi mi hanno fatto: «Eh va beh, lo sappiamo che tu sei ayurvedica»».Ride la prode V., finisce il caffè e va al lavoro dicendo: «Ayuervedica. Non sanno neanche che cosa vuol dire».

mariangela.mianiti@ilmanifesto.it

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