«A saperle leggere spesso le immagini dicono più delle parole», scrive l’archeologa Francesca Ghedini per indicare la traiettoria seguita nel libro che quest’estate ha dedicato alle eroine del mito greco, Maledette Le donne nel mito, con la prefazione di Maria Grazia Ciani (Marsilio «Biblioteca», pp. 302, € 18,00). Un’affermazione che esemplifica l’assunto intorno a cui ha ruotato tutta la sua biografia di studiosa e che un altro suo recente volume edito tra i «Saggi» di Carocci aveva già meritoriamente additato (Lo sguardo degli antichi. Il racconto nell’arte classica, 2022): le immagini condensano storie e sollecitano narrazioni con una forza che non di rado sopravanza quella della comunicazione verbale.
Nel restituire il profilo delle cinque eroine che la tradizione antica ha accomunato, per l’appartenenza alla medesima stirpe divina del Sole e per il fatto di essere tutte perseguitate dalla dea dell’amore (Circe, Pasifae, Arianna, Fedra, Medea), la studiosa opera una scelta senz’altro originale dal momento che valorizza in egual misura i dati letterari e le varianti iconografiche, attraverso una messa a confronto che tiene conto di un’ampia scansione temporale compresa tra l’arcaicità greca e i secoli dell’impero romano. Nelle prime pagine del libro si puntualizzano i presupposti teorici che l’hanno guidata: la lettura delle testimonianze deve necessariamente passare attraverso uno sguardo interno ai contesti, vale a dire capace di intercettare i codici comunicativi che le culture antiche hanno adoperato nel repertorio di immagini giunto fino a noi. In questa prospettiva si collocano le osservazioni restituite da Francesca Ghedini per un corretto inquadramento delle figure esaminate. Ben oltre la carica emotiva che queste donne e i loro amori infelici sono state capaci di incarnare, tanto da assurgere a veri e propri modelli di ispirazione per l’ideazione di altre donne passionali della letteratura di tutti i tempi, la loro esistenza narrativa può essere compresa solo se contestualizzata nell’orizzonte culturale antico di riferimento.
Al riguardo, si potrà citare un esempio tratto dal mito di Arianna e Teseo. C’è da credere, infatti, che la presenza insistente del filo nelle rappresentazioni vascolari non sia da imputare al solo dipanarsi dell’intreccio. È vero che il gomitolo svolge una funzione di primo piano nella relazione che si stabilisce tra la principessa cretese e il suo innamorato, dal momento che orientando i passi dell’eroe verso l’uscita del labirinto ne determina la salvezza. Non si esaurisce qui, tuttavia, il potenziale simbolico che l’oggetto riveste nella definizione identitaria della protagonista, tenuto conto che il valore delle donne si misura in virtù della loro operosità nel lavorare il filo di lana e che quest’ultimo ricorre sistematicamente per qualificarle, nelle fonti letterarie così come in quelle figurate. Si può accarezzare, insomma, l’ipotesi che il gomitolo intervenga per marcare lo statuto femminile di Arianna e il ruolo di futura moglie che la vergine si appresta ad assumere, fermo restando che, in realtà, come evidenziato nel bel libro di una grande specialista francese che pure si avvale della medesima strategia di indagine, incrociando parole e immagini (Françoise Frontisi-Ducroux, Trame di donne. Arianna, Elena, Penelope…, Angelo Colla Editore, 2010), l’attività di tessitrice di Arianna – dotata di una certa sfrontatezza e di una intraprendenza che, in un’ottica misogina e maschile, di certo non si addice alle donne greche – si rivelerà difettosa, perché non funzionale alla realizzazione del velo nuziale e a un’unione legittima con l’ateniese.
A fronte degli intrecci universalmente conosciuti, perché trasmessi dalle opere più celebri della storia letteraria dei greci, colpiscono tutti i tasselli meno noti reperiti dall’autrice, tasselli che proprio le rappresentazioni visive sono in grado di veicolare, in virtù di un particolare requisito che possiedono ma che la nostra sensibilità odierna rischia di trascurare. Nelle società antiche l’artefice di immagini aveva accesso a un patrimonio di racconti orali e di varianti locali, condivisi con i contemporanei ma non sempre confluiti nei testi scritti che sono in nostro possesso. Per questa ragione, le raffigurazioni dei pittori e degli scultori possono attestare versioni non altrimenti note ma ugualmente rappresentative della biografia mitica di un determinato personaggio. Questo è il caso dell’immagine di Medea che, secondo la sola testimonianza di Pausania (Periegesi 5.18.3), era effigiata sull’arca del tiranno Cipselo custodita all’interno del tempio di Era a Olimpia: la nipote del Sole, affiancata da Giasone e Afrodite, vi appare come una sposa regale e felicemente seduta in trono, così come forse aveva positivamente narrato il poeta Eumelo di Corinto, ben prima che Euripide immortalasse una volta per sempre l’efferata assassina dei propri figli. Alcuni vasi attici più arcaici lasciano intuire persino che Medea fosse ritratta nei panni di una figura soccorritrice, piuttosto che in quelli della temibile maga, il che offre lo spunto alla studiosa per una riflessione su una possibile «lettura politica dell’immagine». Si può ipotizzare, infatti, che la declinazione fortemente negativa impressa al personaggio che sul finire del V secolo a.C. calcava le scene teatrali ateniesi sia da attribuire all’esperienza dell’invasione persiana e a un’identificazione della donna della Colchide con il nemico orientale.
Il libro di Francesca Ghedini può essere sfogliato come una puntuale esplorazione dei temi iconografici più frequentemente correlati alle eroine passate in rassegna, ma si presta anche al piacere di una lettura romanzesca, non scevra da ricostruzioni di fantasia, soprattutto quando si rivolge agli anfratti più reconditi del cuore di queste donne, verso cui i testi sono restii a inoltrarsi. Del resto, quando si ha a che fare con l’universo del mito, la storia che si decide di raccontare è solo una ma tra mille possibili.