La classifica del crac: l’Italia dopo la Grecia
Default Il Belpaese ha perso il 10% di Pil e il 25% di produzione industriale. È addirittura ultimo per disoccupati «cronici»
Default Il Belpaese ha perso il 10% di Pil e il 25% di produzione industriale. È addirittura ultimo per disoccupati «cronici»
Secondo gli ultimi dati Eurostat, il tasso di disoccupazione nell’eurozona e nell’Ue continua a viaggiare a livelli record: 11,5% (19 milioni di persone) nell’eurozona e 10,1% (26 milioni di persone) nell’Europa a 28. Se si esclude il picco del 2012, si tratta del dato più alto dai tempi della firma del Trattato di Maastricht, nel 1992. La situazione, però, cambia molto da paese a paese: da un lato abbiamo paesi come Spagna e Grecia che presentano un tasso di disoccupazione – rispettivamente del 24,4% e del 27% – che è nettamente superiore alla media europea; dall’altro, invece, abbiamo paesi come la Germania che presentano un tasso ai minimi storici (4,9%). Superiore rispetto alla media, seppure di poco, anche il dato dell’Italia: 12,6% (circa 3 milioni di persone), il tasso più alto dal 1977. Particolarmente drammatico – e ancor più asimmetrico – il dato della disoccupazione giovanile: 53,7% in Spagna, 51,5% in Grecia, 44,4% in Italia (che però al Sud supera il 60%, il tasso più alto d’Europa), a fronte di un “mero” 7,6% in Germania. Se invece guardiamo alla situazione dei giovani che non lavorano né studiano (i cosiddetti Neet), l’Italia si piazza addirittura in ultima posizione in Europa, con una percentuale del 32%. Anche chi ha un lavoro, però, non se la passa molto bene: a causa delle politiche di svalutazione interna, tra il 2008 e oggi i salari reali sono diminuiti o sono rimasti stagnanti in tutti i paesi della periferia (con picchi del -20% in Grecia). Consequenziale all’aumento della disoccupazione e alla stagnazione/diminuzione dei salari – nonché dei tagli alla spesa sociale e sanitaria – è l’aumento del tasso di povertà e di esclusione sociale nel continente: un dramma che secondo la Commissione europea riguarda ormai il 24% della popolazione dell’Ue (tra cui il 27% dei bambini e il 20,5% degli over-65), pari a più di 120 milioni di persone. Quasi il 10% degli europei oggi vive in condizione di grave deprivazione materiale. Anche qui la situazione varia molto da paese a paese: al primo posto non sorprende trovare la Grecia, seguita però a stretto giro dall’Italia. Secondo gli ultimi dati Istat, nel 2013 il 28,4% dei residenti e il 31,9% dei bambini risultava a «rischio povertà o esclusione sociale». In pratica un italiano su quattro. Ma non se la passano tutti male nel Belpaese, anzi: come segnala uno studio della Fisac Cgil, le disuguaglianze sociali – da sempre molto acute in Italia – sono aumentate drasticamente dall’inizio della crisi: oggi il 10% delle famiglie italiane detiene poco meno della metà (47%) della ricchezza totale (nel 2010 era il 45,7%). E infatti, secondo uno studio della Bertelsmann Stiftung, l’Italia si piazza agli ultimi posti per livello di giustizia sociale in Europa.
Sono numeri – e non solo quelli che riguardano l’Italia – che prefigurano una vera e propria emergenza sociale. Se però dobbiamo credere a quello che ci è stato ripetuto ad nauseam negli ultimi anni, questo era il prezzo da pagare per risanare le economie europee.
E allora vediamo come se la passa l’economia europea dopo quattro anni di austerity. A più di sei anni dalla crisi finanziaria del 2008, l’eurozona nel suo insieme è in piena stagnazione economica e continua a registrare un Pil inferiore a quello del picco pre-crisi, mentre vari paesi sono ancora in recessione. Dopo la Grecia, l’Italia è senz’altro il caso più esemplare: produzione industriale al -25% e Pil al -10% rispetto ai livelli del 2008, tasso di accumulazione ai minimi storici, disoccupazione e debito pubblico a livelli record. Un’apocalisse economica e sociale – che si prefigura come la peggiore crisi dall’Unità d’Italia, ben peggiore di quella del ‘29 in termini macroeconomici – da cui il nostro paese impiegherà decenni a riprendersi (e comunque solo a patto di un radicale cambio di rotta), soprattutto considerando i pesanti effetti strutturali che la crisi ha avuto sul tessuto produttivo italiano. L’esempio più evidente di ciò è l’incredibile numero di aziende che hanno chiuso per sempre dall’inizio della crisi: alla fine del 2013 erano più di un milione e 700 mila (un’azienda manifatturiera su cinque), di cui 111 mila solo nel 2013, secondo uno studio del Centro Studi Cna. Il 94% di queste erano piccole e medie imprese. La causa principale di questa ecatombe è da ricercarsi nel crollo della domanda aggregata e, in particolare, nella riduzione della domanda di beni di consumo. Secondo dati diffusi di recente dal Codacons, gli acquisti delle famiglie sono tornati ai livelli di trent’anni fa, registrando un maxi-calo da 80 miliardi di euro negli ultimi sette anni. Scrive Stiglitiz: «L’austerità si è rivelata un disastro totale e assoluto, reso ancora più tragico dal fatto che queste politiche – inflitte in nome di un artifizio creato dall’uomo, l’euro – erano del tutto non necessarie». Ancor più tragico è il fatto che, nonostante questo, l’Europa (e l’Italia) non accennano a #cambiareverso.
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