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La classe operaia va in scena

La classe operaia va in scenaSimone Francia, Franca Penone e Simone Tangolo – Giuseppe Di Stefano

Teatro Intervista a Luca Longhi che firma lo spettacolo ispitrato al film di Elio Petri

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 17 febbraio 2018

E pensare che quando il film uscì scatenò un vero e proprio dibattito all’interno della Sinistra italiana… Un dibattito talmente acceso che, nonostante la Palma d’oro a Cannes e attori del calibro di Gian Maria Volontè, Mariangela Melato e Salvo Randone, La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri non ebbe molta fortuna. “Con il mio film – disse il regista – sono stati polemici tutti, sindacalisti, studenti di sinistra, intellettuali, dirigenti comunisti, maoisti. Ciascuno avrebbe voluto un’opera che sostenesse le proprie ragioni: invece questo è un film sulla classe operaia”. Era il 1971 e a distanza di quasi 50 anni l’Ert (Emilia Romagna Teatro Fondazione) sceglie di puntare lo sguardo sulla pellicola diretta da Petri e scritta con Ugo Pirro ripercorrendo la vicenda dell’operaio Lulù Massa e la genesi del film in teatro.

Firma lo spettacolo Claudio Longhi (docente universitario, autore di importanti monografie e regista di molti spettacoli teatrali tra cui La resistibile ascesa di Arturo Ui) che si affida ancora una volta allo scrittore Paolo Di Paolo (tra i suoi libri Mandami tanta vita, finalista allo Strega): “Mi interessava vedere, anche pensando ai lavori fatti in passato da Claudio e dagli attori che lavorano con lui, in quale dimensione narrativa avremmo potuto proiettare le figure del film – spiega Di Paolo – . Anche per questo la seconda scena di Militina non è tratta dal film, ma è composta perlopiù da Memoriale di Volponi. È un modo per prendere quel personaggio e, attraverso un testo coevo, metterlo quasi su un piano anatomico per dissezionarlo. Smontare quelle figure per guardare cosa avevano dentro, alle spalle, per sovrainterpretare i rimandi che trovavo: questo potevo fare”. In scena ci sono Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, Filippo Zattini, che hanno debuttato al Teatro Storchi di Modena e ora si preparano ad una lunga tournée (il 18 febbraio all’Arena del Sole di Bologna, poi Brescia dal 21 al 25, Firenze, Vignola, Ravenna, Rimini, Lugano, Pordenone, infine Milano e Roma a maggio).

La prima cosa che viene da chiedersi, naturalmente, è se un’operazione del genere, che pone al centro la questione del proletariato, non rischi di essere anacronistica. Lo domandiamo a Claudio Longhi…

In realtà una delle ragioni di interesse verso questo lavoro è stato proprio il suo anacronismo, per due motivi. Prima di tutto credo che per vedere bene certe cose sia giusto osservarle da lontano. A distanza si coglie meglio l’essenza. Il tema del lavoro è un tema attualissimo, ma guardarlo attraverso lo specchio ci aiuta ad oggettivarne meglio i confini. Secondo, l’anacronismo ha un suo fascino. Mi ha molto toccato il senso della perdita di un certo mondo. Gli anni Settanta sono stati anni terribili, eppure c’era anche un afflato positivo, una forte aspirazione rivoluzionaria che purtroppo oggi si è persa. Raccontare oggi La classe operaia va in Paradiso sul palcoscenico, quindi, è una doppia sfida. Prima di tutto per il problema in sé di rappresentare la “classe operaia”, perché si tratta di un soggetto collettivo, difficile da incasellare teatralmente. Il problema è proprio portare in scena un soggetto che ha sia una dimensione individuale che quella di un io collettivo, di massa. La seconda sfida, invece, è il frutto delle evoluzioni storiche degli ultimi decenni. In fondo se pensiamo ai primi del Novecento, o al resto di buona parte del secolo scorso, la categoria di “classe operaia”, pur problematica per chi faceva teatro, era però ben concreta e radicata nella realtà. Oggi invece, lo svaporamento della società con la frantumazione dei nuclei compatti di lavoratori, la progressiva dispersione data dalla volatilità del capitale e dalla precarietà conseguente del lavoro, ha colpito e tramortito l’identità stessa della classe operaia. Si è persa la coscienza di cosa sia la classe operaia. Ovvero si è smarrita una “coscienza di classe”.

E’ vero, probabilmente la coscienza di classe oggi non esiste più, ma è anche vero che il lavoro stesso, la nostra società, è come se si fossero frantumati. Oggi ci sono i precari, a maggior ragione è urgente parlare di lavoro anche in teatro?

Siamo una Repubblica fondata sul lavoro, ricordiamocelo… E poi c’è la cronaca che ci ricorda il problema della scarsa sicurezza sui luoghi di lavoro. Non solo, quando incontro i miei studenti universitari durante l’orario di ricevimento tocco con mano il problema della mancanza di occupazione. Ragazzi preparatissimi mi chiedono: ora cosa faccio? E di fronte a quella domanda, all’incapacità di dare una risposta, vivo il dramma che si sta consumando. E’ interessante anche osservare cosa recepiscono di questa pellicola le giovani generazioni, anche a partire dalla loro totale estraneità.

Ecco, ma quale punto di vista avete scelto per raccontare la vicenda di Lulù Massa?

Abbiamo fatto un’operazione di continuo smontaggio e rimontaggio. In modo particolare abbiamo lavorato su tre livelli: restituire alcune sequenze del film; far raccontare certi frammenti ad alcuni personaggi; recuperare materiale dal laboratorio di Petri e Pirro e insieme recuperare le recensioni. Lo spettacolo inizia con i titoli di coda della pellicola. Questa operazione di restituzione del film è stata arricchita dalla letteratura, da Volponi a Sanguineti fino a Lidia Ravera.

Ad un certo punto, durante lo spettacolo, si sente dire: “è obbligatorio fare un film sugli operai”. Questo può significare anche che un teatro politico è necessario?

Certo, ne sono profondamente convinto. Io sposo totalmente le idee di Turner. Secondo l’antropologo il teatro è uno straordinario dispositivo attraverso il quale si cerca di capire come intervenire sulla realtà. Il dispositivo di travestimento serve ad interrogarci. In generale credo che il teatro sia di natura politica. E’ un luogo in cui la comunità si chiede cosa sta accadendo. Da questo punto di vista è necessario affrontare certe questioni.

Questo discorso immagino valga anche per la stagione dell’Ert, di cui è direttore da pochissimi mesi.

La suggestione stessa di lavorare su La classe operaia va in Paradiso è arrivata da Lino Guanciale mentre mi preparavo a partecipare al bando per la direzione dell’Ert. L’esigenza è arrivata immediatamente. Se poi penso alla stagione… in chiusura ospitiamo Work in progress di Gianina Cărbunariu, ancora una volta sul tema del lavoro. Le avevo chiesto uno sguardo sull’Europa ma lei mi ha detto: “Ok, però voglio parlare di lavoro”.

Senza rinunciare ad uno sguardo lungo, più europeo, che ha sempre caratterizzato il percorso dell’Ert.

Non è a caso Gianina Cărbunariu è una regista rumena, quindi la volontà di allargare lo sguardo resta. Nel mondo in cui siamo il confronto aiuta senza dubbio a fare chiarezza.

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