La lingua che si parla è parte fondamentale dell’identità di un singolo e di una collettività. Lo sapeva bene Antonio Vallisneri che, alla competenza scientifica, medica, biologica affiancò sempre un vivo interesse per la questione della lingua italiana, del suo rapporto con le altre lingue europee e soprattutto con il latino. Assai attento alla funzione civile degli studi, pubblicò nel 1722 (nei «Supplementi al Giornale dei Letterati d’Italia», I, art. IX, pp. 252-330) una Lettera – ora pubblicata in un’edizione agile e rigorosa a cura di Dario Generali: Che ogni Italiano debba scrivere in Lingua purgata Italiana, o Toscana, per debito, per giustizia, e per decoro della nostra Italia. Lettera del Sig. N. N. *** al Sig. Alessandro Pegolotti, Segretario di Belle Lettere del Serenissimo di Guastalla, Olschki, Firenze 2013 – nella quale enunciava con chiarezza le molte ragioni per le quali fosse necessario utilizzare il volgare anche nella comunicazione scientifica e letteraria. «Ragioni semplici», esposte «senza belletto e senza artifizio», come scrive Vallisneri stesso.
Il fiore e lo spirito
La prima è di carattere storico-ciclico. Come i singoli uomini così tutte le civiltà, osserva lo scienziato, sono destinate a raggiungere un culmine e poi a scomparire. E con esse le loro lingue. Il greco cedette al latino e quest’ultimo all’italiano, è bene prenderne atto senza sterili nostalgie.
La seconda ragione è di tipo psicologico-strutturale: se Greci e Latini raggiunsero gli eccellenti risultati che tutti ammiriamo, è perché pensarono, parlarono e scrissero in una lingua che era la loro e non importata e imposta da altri luoghi e altri tempi.
La terza motivazione articola in «cinque requisiti» le caratteristiche che fanno della lingua italiana uno strumento assolutamente consono a esprimere e comunicare qualsiasi contenuto: «il nostro idioma» è «ricco e copioso di voci e di sinonimi, a fine di poterne far libera elezione de’ migliori e de’ più confacenti all’eleganza dello stile e alla proprietà del parlare»; esso porta con sé «agevolezza e comodità di favellare» in tutte e tre le modalità retoriche umile, media e sublime; è «capace di molte e varie figure, e di forme nobili ed ingegnose»; è «di suono dolce e spedito nella pronunzia»; e ciò vale, infine, tanto per la prosa quanto per la poesia. Più avanti l’Autore sintetizza tutto questo nell’affermazione che la lingua italiana costituisce «il fiore e il puro spirito» della lingua latina, non mancando in essa «la soavità, la purità e tutta la grazia più viva e più aggradevole».
Altre motivazioni più pragmatiche fanno riferimento alla necessità di farsi intendere da tutti, aggiungendo – con elegante ironia – che certo «egli sarebbe meglio che si ragionasse in latino!» e, meglio ancora, che i barbari non fossero mai arrivati e la tradizione linguistica non fosse stata interrotta. E tuttavia, «sendo altrimenti, che si deve fare? Vogliamo noi morir di dolore? Restar mutoli e non parlar mai, fin che non torni a rinascere Cicerone e Virgilio?».
Altra ragione ancora è il rischio – che può ben valere anche per la contaminazione contemporanea tra l’italiano e l’inglese – che il risultato sia una sorta di ibrido tra il volgare e il latino, ibrido che rimane lontano dai pregi delle due lingue e precipita invece in «un terzo modo barbaro e disgustoso».
Sono tutti argomenti, questi, che per Vallisneri dovrebbero suggerire almeno prudenza nei giudizi e nei comportamenti di quanti sostengono l’uso del latino, al fine di evitare di essere «così ingrati alla loro nativa favella e al decoro della loro nazione, né così senza cortesia, per non dire senza creanza, che chi parla bene in volgare e scrive per solo zelo del bene pubblico e della gloria italiana, venga da loro pedantescamente e senza ragione disprezzato e deriso».
Come si vede, si tratta di un testo non soltanto brillante nello stile, argomentato nella polemica, profondo nelle motivazioni, ma di un libro anche assai attuale, capace – come scrive il curatore – di illustrare «in modo eccellente anche alla nostra contemporaneità il valore della lingua e della cultura italiane e l’errore di chiunque operi per marginalizzarle nella nostra nazione, in nome di mode e pregiudizi che non possono che essere esiziali per la vita e lo sviluppo intellettuale del nostro paese».
L’intera Premessa di Dario Generali analizza e commenta con efficacia il significato del testo di Vallisneri anche in relazione a decisioni e intenzioni – come quella del Rettore del Politecnico di Milano e dell’ex ministro dell’Università Profumo – di imporre l’inglese come lingua esclusiva dei corsi di laurea magistrali. Le ragioni che rendono insensati tali proponimenti sono enunciate anch’esse con chiarezza.
In primo luogo, una simile scelta «porterebbe alla creazione di un’élite anglofona e alla distruzione della cultura e della lingua italiana (…), un vero e proprio suicidio culturale».
La «mobilità internazionale» significherebbe favorire ulteriormente l’emigrazione all’estero dei nostri migliori studenti e laureati, con perdita degli investimenti necessari a formarli. Gli studenti che si accoglierebbero invece dall’estero sarebbero quelli in buona parte respinti dalle università prestigiose di altri paesi e attirati dalla maggiore facilità di ingresso nelle nostre università e dai costi per loro più bassi di formazione. Studenti istruiti in un contesto di cultura anglofona che verrebbero poi restituiti «ai loro paesi d’origine o, più generalmente, al mercato globalizzato del lavoro, senza alcun vantaggio per la nostra economia e per la nostra cultura, ma con l’evidente danno di esserci fatti carico dei costi della loro formazione».
Inglese a tutti i costi
L’obbligo di seguire lezioni soltanto in inglese rappresenterebbe, inoltre, un ulteriore onere economico per le famiglie, costrette a far acquisire fuori dalla scuola ai propri figli le competenze necessarie, visto che quelle scolastiche difficilmente rendono in grado di comprendere così bene quella lingua.
Ma la motivazione scientificamente più importante è un’altra e consiste nel radicale impoverimento dei contenuti didattici e culturali che l’utilizzo a lezione di una lingua non pienamente posseduta dai parlanti comporta. I docenti sarebbero «preoccupati di gestire in modo accettabile la forma più che l’efficacia didattica della loro comunicazione. A loro volta gli studenti, quantunque addestrati in qualche modo in scuole private e in soggiorni all’estero, sarebbero più che altro concentrati a capire la lingua, con l’ovvio risultato di una drastica riduzione dell’efficacia e della comprensibilità delle lezioni».
Le conseguenze di tutto questo sulla scrittura scientifica sono già chiare oggi e si aggraverebbero ancora di più in futuro. Il pregiudizio che richiede la pubblicazione in inglese delle proprie ricerche è non soltanto un evidente segno di provincialismo culturale – i francesi, che proibiscono persino l’utilizzo della parola computer a favore dell’autoctono ordinateur, hanno evidentemente un’altra idea della propria lingua – ma ha anche alla base una grave debolezza scientifica, che consiste nel «non voler giudicare opere e scritti per quello che sono, ma per la lingua in cui sono stesi (…) quando è ovvio che si possono scrivere – e molto frequentemente si scrivono – banalità prive di alcun valore scientifico su pubblicazioni in inglese in sedi internazionali e cose molto intelligenti e originali in italiano su riviste nazionali». Valutare non il che cosa si scrive, ma il dove si scrive ha come fondamento la dogmatica convinzione che il luogo nel quale si espongono i risultati renda magicamente efficace -nel senso antropologico- il loro contenuto.
Il pensare umano è intrinsecamente linguistico. Si abita una lingua come si abita un mondo. È anche per questo che, come conclude Vallisneri, è certo doveroso conoscere quanto meglio possibile le altre lingue ma è fondamentale che «cadaun italiano» sia «veramente tenuto a parlar bene e a scrivere bene in italiano».