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La città eterna rivive nell’ardore dei sogni: il viaggio di Gérard Macé

La città eterna rivive nell’ardore dei sogni: il viaggio di Gérard MacéWilliam Klein, Roma, piazza San Pietro, dalla serie scattata dal fotografo americano tra il 1956 e il 1960;

Scrittori francesi «Roma effimera», da Lemma Press

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 14 aprile 2019

Forse sarebbe eccessivo ritenerla una specialità della letteratura francese, certamente, però, in tutto il Novecento, i reportage di narratori e poeti d’Oltralpe dedicati a Roma restano fra i più toccanti. Basterebbe ricordare le note di Valery Larbaud, oppure, per avvicinarci ai nostri giorni, quelle stilate da Jean-Paul Sartre o Yves Bonnefoy – degne di figurare accanto alla raccolta che Alberto Arbasino, per limitarci a un unico italiano, intitolò Parigi o cara. E poco importa se alcuni fra quegli scrittori detestarono la nostra capitale, come nel caso proverbiale di Julien Gracq con il suo Intorno ai sette colli. Sempre di una passione si discorre, per quanto di segno rovesciato: «Non sono mai stato pienamente conquistato da Roma. In compenso – ed è questo che conta – non mi ci sono mai annoiato».

Bene hanno fatto dunque le edizioni Lemma Press a pubblicare adesso Roma effimera di Gérard Macé (traduzione di Sergio Miniussi, prefazione di Pietro Citati, pp. 107, e 12,50). Male hanno fatto, invece, a non segnalare che il volume era già uscito nel 1992, e per di più con la stessa traduzione, presso le edizioni Theoria. Aver taciuto la notizia, rende tanto più sospetto il cambiamento del titolo originale, Roma o il firmamento, che peraltro rispecchiava assai meglio quello francese (Rome, ou le firmament). Sarebbe stato bene ragguagliare il lettore, tanto più che, come esordisce l’opera, a Roma non si può che ritornare. Ascoltiamo questo magnifico incipit: «A Roma, si ritorna soltanto. Nell’ardore dei sogni (e alla luce del sole resistono alcune rovine: cantiere di false pietre, canto sordo di una lingua morta, foro dischiuso a ogni verità) o sotto un cielo temporalesco».

Tra i pochi letterati francesi perfettamente a sua agio con la letteratura e la lingua italiana, Macé, nato a Parigi nel 1946, è un autore molto particolare, in grado di spaziare da prose d’arte a poesie vere proprie, da saggi a aforismi. Noto anche come fotografo e viaggiatore (è il caso di un felice libro sull’Etiopia), conta tra le pubblicazioni più conosciute Il mantello di Fortuny, sul grande stilista amato da Proust, o L’ultimo degli egiziani, che celebra lo studioso, Champollion, il primo a decifrare i geroglifici grazie alla scoperta della Stele di Rosetta.
Roma effimera vive del fascino di una scrittura concentrata e sorvegliatissima, caratterizzata da uno stile erudito che spiega l’elogio di Cioran in quarta di copertina. Il primo dei tre capitoli si sofferma su quella sorta di Giano bifronte costituito dalla coppia antagonista di Bernini e Borromini. Attraverso le loro costruzioni, la città viene trasfigurata nei quattro elementi primordiali: dalla terra cotta alle macchine idrauliche, dalla dimensione aerea simboleggiata nell’elica di S. Ivo alla Sapienza, alle fiamme evocate nei versi di Jean de Sponde.
Lo stesso principio alchemico domina il secondo capitolo, mentre nel terzo compare il personaggio di Piranesi. L’autore delle Carceri è descritto alla stregua di un archeologo «cui gli Etruschi dall’alfabeto indecifrabile parevano Egiziani di un tempo antico a lui più vicino». Qui si ritrovano, finalmente accostati, i due grandi popoli di un’antichità esoterica. D’altronde, soltanto dodici anni separano la morte del grande incisore romano dalla nascita di Champollion, anni che per Macé rappresentano uno dei terreni più adatti ad indagare la nascita del moderno.

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