Il documentario, o perlomeno la creazione con elementi documentaristici, è una pratica ampiamente diffusa tra gli artisti di tutto il mondo. Nell’era del cosiddetto post-cinema, in cui l’ibridazione dei generi, la mescolanza dei registri, la convergenza dei supporti e dei dispositivi è ormai divenuta abituale, l’attitudine di molti autori che provengono dalle arti visive a confrontarsi con le immagini in movimento, non necessariamente di carattere sperimentale, nasce da diverse ragioni, tra cui l’esigenza di connotare il proprio lavoro in chiave antropologica, sociologica, politica e via dicendo. Le tipologie possono quindi essere varie: film autonomi monocanale, per una visione su schermo, destinati ai festival più che alle gallerie; film concepiti per essere presentati anche sotto forma installativa; infine film che fanno parte di un progetto più articolato e, dunque, collegati a opere di altro tipo (installazioni, fotografie, disegni, quadri, oggetti, ecc.).

Afferisce a tutte e tre queste tipologie il lavoro dell’inglese Sarah Morris, pittrice astratta la quale, a partire dal 1998, ha realizzato numerosi film, tra cui diversi lungometraggi, dedicati soprattutto a grandi metropoli: Rio, Los Angeles, Parigi, Abu Dhabi, Beijing, accomunati da una medesima struttura caratterizzata da: a) una successione di immagini e sequenze non ordinate apparentemente secondo una logica; b) assenza di dialoghi e suoni naturali, sostituiti dalla musica elettronica di Liam Gillick, che crea un unico tappeto musicale in grado di rafforzare o contrappuntare il visivo; c) predilezione per le inquadrature fisse, che replicano meglio la staticità dinamica della tela dipinta (sono rare le panoramiche, più frequenti i carrelli).

Ora, per la prima volta tutti i suoi quattordici film, sono stati esposti a Beijing negli spazi del prestigioso UCCA (Ullens Center for Contemporary Art), situato nel 798, distretto dell’arte contemporanea della città. Odysseus Factor, questo il titolo della mostra, festeggia il ventennale dalla realizzazione del suo primo film, Midtown (1998) e segna il ritorno dell’artista nella capitale cinese dieci anni dopo l’edizione e la presentazione di Beijing (2008). Videoproiettati all’interno di box o installati su enormi ledwall, alternati ai suoi quadri e manifesti cinematografici (sia dei suoi film, sia di grandi classici del cinema da lei rielaborati), la loro visione crea allo spettatore qualche problema: una fruizione distratta e frammentata – infatti – non sembra sufficiente a cogliere la complessità e la ricchezza del discorso visivo/concettuale. Al tempo stesso una loro fruizione completa ma individuale sul piccolo schermo, non renderebbe giustizia alla forza di questi film. L’unica soluzione, dunque, è quella di restare alcune ore all’interno della mostra cercando di vedere quanto più possibile di questo universo audiovisivo in cui si finisce per immergersi.

L’astratto nel figurativo

Di fronte ai film della Morris, la prima cosa che si è portati a fare è stabilire un collegamento tra i suoi quadri astratti contraddistinti da colore e strutture geometriche e la sua produzione filmica, costituita da immagini dal vero e, dunque, figurative. Sarebbe stato molto più facile, ma anche troppo scontato per l’artista, realizzare un cinema astratto come i suoi quadri, magari partendo proprio da essi animandoli.

In realtà in molti suoi film, di tanto in tanto, la Morris è attratta da elementi luminosi astratti: insegne, luci sfocate, la linea retta e il cerchio che costituiscono i codici minimali del suo linguaggio pittorico, ricorrono spesso nei suoi film: pensiamo ad esempio all’incipit o alle facciate geometriche degli edifici in Midtown; alla sinfonia luministica del cortometraggio AM:PM (1999) dove Las Vegas viene scandagliata dall’alto oppure mediante dettagli ravvicinati delle imponenti insegne luminose: una mappa astratto/figurativa ma anche un’alternanza tra macchinico e umano, sebbene l’umano non debba necessariamente essere l’uomo, anzi Morris coglie anche nell’oggetto una sua umanità e bellezza e dalle sue opere traspare netta una sensibilità quasi futurista per la metropoli, colta come in un vortice boccioniano di luce-colore-movimento (La città che sale).

Inoltre, il geometrismo rigoroso di ciascuna inquadratura – accuratamente costruita – congiuntamente a una ricerca cromatica, sono senza dubbio altri due elementi che denotano un rapporto tra il suo cinema e la sua pittura. Ma bisognerebbe parlare semmai di un processo inverso, vale a dire che molte sue tele astratte sono ispirate ai suoi film e da essi ricavate, a giudicare dai titoli. Dunque – contestualmente alla lavorazione dei suoi medio e lungometraggi, che richiedono molto tempo soprattutto per pianificare le diverse location e i molteplici aspetti del paesaggio umano e urbano che l’artista vuole cogliere –, sono piuttosto le immagini realistiche dei suoi film ad essere trasformate in quadri astratti, come se Morris sentisse la necessità di ridurre ai dati essenziali (linee, campiture di colore) un immaginario già definito mediante il discorso audiovisivo. Una vocazione per il diagramma che si evince anche dai manifesti cinematografici su cui l’artista interviene dipingendo una griglia di linee nere o colorate.

E’ il figurativo insomma a rivelare l’astratto, ma è anche vero che l’astratto si rivela poi essere figurativo, secondo il classico meccanismo delle immagini a percezione ritardata: Strange Magic (2014), ad esempio, si apre con le colate d’acqua che scendono gradualmente dal potente gioco visuale della fontana-scalinata della fondazione Vuitton progettata da Frank O’Gehry, concludendosi con un pulviscolo luminoso di cui non si comprende bene la natura. In Abu Dhabi (2016) la lunga carrellata sulle decorazioni coloratissime di un cavalcavia filmate da un’automobile, è una dimostrazione di come si possa dipingere filmando; la stessa sensazione di pittura cinetica si prova nel vedere le auto da corsa di Capital (2000) o di Miami (2002) che, inquadrate da vicino, diventano macchie cromatiche. Morris non utilizza mai effetti di postproduzione elettronica (o per lo meno non sono né visibili né esibiti) limitandosi a riprodurre la realtà secondo certe modalità. In questo senso l’autrice non fa mai ricorso a dissolvenze incrociate o ad altri effetti: tutto ciò su cui lavora è la composizione dell’inquadratura, di un’immagine in grado di bastare a sé stessa. Nel corso del tempo il dispositivo cinematografico ha consentito alla Morris di raffinare e perfezionare sempre di più a texture delle immagini filmiche, passando dalla grana 16mm di Midtown o AM:PM al 35mm di Miami e Chicago (2011), fino alla resa digitale dei suoi ultimi lavori, nei quali emerge sempre di più una cura e un’attenzione per la luce e per i valori cromatici, specialmente in Beijing e in Abu Dhabi dove interviene sul colore, saturandolo spesso. E’ un colore brillante, luminoso, uniforme, di grande impatto visivo. Buona parte del merito è ascrivibile quasi al direttore della fotografia David Daniel, collaboratore della Morris da circa 20 anni.

Aperture narrative

In diversi momenti le immagini di Morris sembrano assumere la forma di una narrazione all’interno della struttura documentaria 1. Ogni inquadratura, in qualsiasi momento, potrebbe svilupparsi in una diegesi. Pensiamo in Abu Dhabi alla sequenza con i principi sauditi nella sala d’attesa della clinica dove i loro falconi sono sottoposti a visite di controllo o subiscono piccoli interventi chirurgici. Oppure a Rio (2012), dove si apre una lunga parentesi sul mondo dell’ippica, delle corse di cavalli, delle scommesse, con la sequenza del cavallo infortunato il cui soccorso ci viene mostrato per tutto il tempo necessario. Oppure ancora, in questo stesso film, al finale incentrato sulla massima attrazione della città: il carnevale, presentatoci, tuttavia, come qualcosa di surreale e perfino di inquietante, anche grazie alla uniforme e ossessiva musica di Gillick che sostituisce il calore del samba con una freddezza minimale, neutralizzando l’aura festosa dell’evento e riducendolo a un insieme meccanico di gesti svuotati di senso. Il “racconto” del reale si configura, naturalmente, anche mediante dettagli insignificanti, come il guanto rosso di uno spedizioniere o gli stivali viola di una ragazza che aspetta il bus (Chicago); particolari che arricchiscono ancora di più il puzzle visivo/narrativo del film.

L’apparente asetticità e neutralità con cui Morris ci mostra il mondo, la banalità del quotidiano, cela forse qualcos’altro? C’è una critica anche politica, economica e sociale all’ordine delle cose, al sistema che si configura davanti ai nostri occhi inquadratura dopo inquadratura? Non c’è dubbio, anche se tutto resta sotto traccia e non c’è alcuna indicazione in questo senso, se non – spesso – una profonda sensazione di solitudine che emerge da questi film: avvertiamo molti soggetti ritratti come sperduti e smarriti, fagocitati dalla metropoli. Eppure, come dicevamo, non c’è un approccio morale e polemico alla visione, solo la necessità di rappresentare un paesaggio dell’anima. In questo senso più che al Godfrey Reggio della trilogia di Koyanisqqatsi – con cui vi sono sicuramente delle affinità, anche per il rapporto tra musica e immagine – la Morris sembra perfino più vicina alle sinfonie urbane dell’avanguardia storica, come il Berlin di Ruttmann, per l’interesse che nutre verso il puro ritmo delle forme. Ciò che più attrae il suo sguardo sono le segrete geometrie che legano i corpi alle architetture, gli eventi ai luoghi, le luci e i colori alle forme, i momenti di stasi ed attesa ai momenti di azione, fino a quando nel suo cinema “seriale” – ossessionato dal ritorno del simile e del sempre uguale – non si creano fratture e aperture narrative.

Senza parole

L’effetto di straniamento di cui parlavamo prima si prova anche di fronte alle ripetute sequenze di Capital con Bill Clinton di cui vediamo il labiale ma non udiamo il suono. E questa abitudine a mostrare all’interno del suo cinema grandi personalità sotto forma di fugaci guest star, frustrando però lo spettatore che non può goderne a pieno la “presenza” dal momento che Morris li priva della parola: da Oscar Niemeyer e Danuza Leão in Rio a Dennis Hopper ripreso mentre guida l’auto che ritorna più volte fugacemente in Los Angeles (2004; ma anche, nello stesso film, Dino De Laurentiis ripreso per pochi secondi nella sua villa o Brad Pitt durante le prove sul set). La scelta di escludere del tutto la parola, accanto ai suoni naturali, lasciando che la musica elettronica sovrasti l’immagine è una delle costanti, come dicevamo, dell’estetica di Morris. Una delle ragioni, probabilmente, è che qualsiasi interruzione danneggerebbe il flusso continuo delle immagini, il “basso musicale” su cui è costruito l’intero film. E in questo modo personaggi riconoscibili finiscono con l’essere assorbite dal paesaggio umano-architettonico alla stregua degli altri abitanti.

Uno dei rari momenti in cui fa irruzione la parola (non sotto forma di commento ma di dichiarazione) è all’inizio di Strange Magic, introdotto dalle parole di Frank O’Gehry: ma è quasi inevitabile, trattandosi di un lavoro su commissione, dedicato a un’opera specifica: la fondazione Vuitton a Parigi, progettata dall’archistar statunitense. L’artista-cineasta segue l’intero processo di costruzione mostrando poi il risultato finale, senza tuttavia rinunciare a raccontare il contesto architettonico parigino. Ma la Fondazione Vuitton è anche il pretesto per un più generale discorso sulla “magia” della francesità: per esempio quando trasforma il documento in advertising, dettagliando su alcune boccette di profumo Dior seguite dal collo di una bottiglia di champagne Moet et Chandon da cui salta il tappo e fuoriesce il liquido; ed ecco, immediatamente dopo, sventolare il tricolore sull’azzurro del cielo: in pratica uno spot sulla Francia costruito attraverso una concatenazione dei simboli del lusso.

Vagare e divagare

I film di Morris possono nascere spesso da precisi eventi. Se Abu Dhabi – commissionatole dal locale Guggenheim – è stato girata in gran parte durante la giornata nazionale degli emirati arabi uniti, il film su Beijing è invece legato ai giochi olimpici del 2008: l’artista è venuta nella capitale cinese prima, durante e dopo, in modo da documentare pienamente la trasformazione graduale della città). Eppure le Olimpiadi in sé finiscono col diventare quasi un pretesto per esplorare non solo una città ma una cultura extra-occidentale, allontanandosi dai classici stereotipi sulla Cina: ma l’attenzione di Morris è per esempio rivolta alla maniacale cura per i particolari dei cinesi. Anche in Los Angeles, per quanto il film ruoti intorno al mondo del cinema, la notte degli Oscar resta un episodio tangenziale e la passerella dei divi solo una fugace parentesi.

E’ interessante questo continuo avvicinarsi all’oggetto principale del documentario e, al tempo stesso, allontanarsene attraverso un vagare e un divagare: e l’assenza di parola contribuisce a tutto ciò. In Capital l’appuntamento con la classica e abusata veduta della Casa Bianca (il luogo simbolo di Washington), viene a lungo ritardato e – perfino quando Morris ci mostra il Campidoglio – è solo per una volta. E’ dalla necessità di rifuggire dalle vedute cartolinesche della città, soffermandosi solo sugli aspetti secondari, sugli scorci “minori”, sui dettagli su cui magari non presteremmo attenzione nella vita reale, che si genera il mood, il senso più profondo della scena urbana in tutte le sue declinazioni planetarie.

Le continue divagazioni della Morris rispetto al soggetto del film (e le sue fughe dal “centro” urbano, ammesso che in molte città vi sia) non sono solo l’indice di una totale libertà dell’artista ad espandere il proprio immaginario mediante associazioni visive e concettuali, ma rappresentano anche un rafforzamento rispetto al soggetto stesso del film. E’ quanto avviene in Strange Magic, dove ci si allontana dalla fondazione Vuitton ma sempre ad essa si ritorna, per il suo potere magnetico.

L’effetto che certe inquadrature fanno su un enorme ledwall, senza alcuna perdita di definizione neppure in una sala illuminata a giorno, è davvero impressionante. Così, in alcuni momenti, nell’inquadratura si affaccia un elemento ai bordi dello schermo che spicca ancora di più su un fondo nero o monocromatico. Morris lavora con grande perfezione sui rapporti tra vuoti/pieni, sulle specularità, sulle simmetrie, sui bilanciamenti di forme e di colori, sui giochi di profondità di campo, usando al meglio le ottiche macro. Tutto ciò non può avere lo stesso impatto e lo stesso senso che su uno schermo grande che restituisca al meglio la risoluzione di quelle immagini. Ecco perché oggi non è più accettabile installare immagini in movimento nei contesti espositivi senza uno standard qualitativo di altissimo livello: pena la comprensione stessa delle opere e il totale tradimento del lavoro dell’artista.

BOX

Sarah Morris, nata nel Regno Unito nel 1967, vive e lavora a New York. Ha realizzato numerose personali, in musei come Kunsthalle di Vienna, Brema e Zurigo, il Palais de Tokyo di Parigi, il Bojimans di Rotterdam, il Moderna Museet di Stoccolma. I suoi film sono stati inoltre presentati alla Biennale di San Paolo, al festival di Locarno, al MoMA, al Pompidou e alla Tate Modern. Morris è inoltre autrice anche di documentari più “classici”: Robert Towne, portrait dello sceneggiatore e produttore hollywoodiano; Finite and Infinite Games (2017), conversazione con Alexander Kluge, a proposito dei suoi rapporti con Adorno e la Scuola di Francoforte; 1972 (2008), incentrato sui giochi olimpici di Monaco, rievocati attraverso le parole dello psicologo della polizia monacense Georg Sieber. Tutti presenti nella mostra dell’UCCA insieme a Points on a Line (2011), dedicato a Mies van de Rohe e all’architettura modernista più in generale.