La Chola Poblete, creature ibride fra il sacro e il pagano
Intervista Parla l'artista argentina in mostra al Mudec di Milano. «Sono consapevole che la mia presenza riesce a generare tensione e disagio – dice con orgoglio e timore – Mi presento con il mio corpo e il colore della mia pelle. Posso leggere la sorpresa in chi mi osserva, ma io voglio sottrarmi al cliché dell’indigena e della trans. Quando mi vedono come vittima, mi presento come diva»
Intervista Parla l'artista argentina in mostra al Mudec di Milano. «Sono consapevole che la mia presenza riesce a generare tensione e disagio – dice con orgoglio e timore – Mi presento con il mio corpo e il colore della mia pelle. Posso leggere la sorpresa in chi mi osserva, ma io voglio sottrarmi al cliché dell’indigena e della trans. Quando mi vedono come vittima, mi presento come diva»
Gli acquerelli e il pane hanno in comune l’acqua, dice La Chola Poblete. «Mi affascina quella dimensione liquida. La carta la assorbe e intanto le figure si ricompongono in macchie, è l’impasto che cresce e si deforma. È un transito, il mescolarsi delle forme, quel diventare qualcos’altro. Acquerelli e pane sono materiali altamente performativi, sono indipendenti e aprono a una mutazione».
CHE SIANO IL LIQUIDO sulla carta, i corpi in scena, le sculture di pane o la montagna di patatine fritte a coprire il pavimento, «ognuna di queste cose non resiste al tempo e viene il giorno che si riempie di muffe, batteri e creature che divorano e disfano e riportano ogni cosa alla terra». È qui dove vive il «barocco andino» di cui parla La Chola Poblete.
«Artista dell’anno» per il prestigioso programma d’arte contemporanea della Deutsche Bank, l’argentina (classe 1989) si presenta al Mudec di Milano, dopo il successo ottenuto alla Biennale d’arte di Venezia, dove ha incassato una menzione speciale della giuria e i riflettori del mondo.
A Milano porta (fino al 20 ottobre, a cura di Britta Färber) la mostra realizzata a Berlino al Palais Populaire, che ha intitolato Guaymallén, proprio come il suo paese natale, a un passo da Mendoza e ai piedi delle Ande.
C’è stato un tempo che a Guaymallén La Chola Poblete si chiamava Mauricio: «Vivevo con mia madre e sei zie: un mondo di donne. Della mia infanzia ho ricordi dolorosi, sì, ma anche pieni di colori e di vita. Se chiudo gli occhi mi rivedo nella mia cameretta, turbata mentre mi interrogavo sul mio corpo e indaffarata a disegnare. Sognavo di esporre in un museo di Mendoza e invece sono finita alla Biennale di Venezia. La nostra era una famiglia umile, mia madre tutt’ora lavora come domestica. Qualunque cosa mi sia successo di bello dopo, non posso dimenticare da dove vengo».
È COSÌ CHE È NATA La Chola Poblete, immersa in un transito per accumulare forza. La Chola è il cammino verso le origini indigene e andine, tutto quello che gli argentini hanno sempre provato a nascondere, perché ancora si pensano solo bianchi ed europei. Ed è il transito di corpi scandalosi: «Sono consapevole che la mia presenza riesce a generare tensione e disagio – dice con orgoglio e timore – Mi presento con il mio corpo e il colore della mia pelle. Posso leggere la sorpresa in chi mi osserva, ma io voglio sottrarmi al cliché dell’indigena e della trans. Quando mi vedono come vittima, mi presento come diva». Sorride La Chola sotto i suoi capelli lunghi e gli occhi nerissimi e intensi. E aggiunge: «Mi piace pensarmi come un virus nel sistema».
Lei può posare sulla copertina de l’Oficiel come una star del fashion system e frequentare gli attivisti di Identidad Marrón, il collettivo in prima linea contro il razzismo e il classismo della società argentina; può abitare vicino all’Obelisco a Buenos Aires e stare sulla strada per prendersi cura delle prostitute trans ferite, violentate e insultate.
La Chola Poblete è una minaccia e una promessa. Un po’ come le Madonne che mette al centro dei suoi grandi acquerelli, circondandole di stampigli, pensieri, simboli e una folla di creature ibride e vitali, componendo vertiginosi cenacoli di vergini, dee e combattenti. Ogni opera è un diario intimo e un manifesto. «È una composizione barocca, sì. Ma di quel barocco che io chiamo andino. Ci metto domande molto personali sulla mia vita quotidiana e mi infilo nella storia argentina, nella storia dell’arte, per poter mettere in tensione l’eredità lasciataci dagli europei con il patrimonio nativo mai considerato arte. Voglio che sia un canto che rumina idee e storie, un canto che nasce da tutto quello che genera in me un flusso continuo di riflessioni e uno slancio di vitalità».
QUEL CICLO DI «VIRGENES» non è ancora arrivato a trentatré opere, il numero che La Chola ha in mente di dipingere. Un giorno, racconta, mio nonno quand’era bambino ha trovato per caso una statuina della Madonna, mezza interrata. Tutti gli dicevano di conservarla, ma lui l’ha rotta e gettata via. È morto a trentatré anni, folgorato, pensando alla maledizione di quella statuina. La Vergine è il castigo e la salvezza. Ricorda l’arrivo brutale della colonia e la meraviglia del sincretismo delle culture latine. Quando alla Fiera di Arco, a Madrid, si è trovata di fronte la Regina, La Chola non si è inchinata né si è messa una mano sul cuore, come da protocollo. Le ha solo detto: «È da 530 anni che ti stavo aspettando».
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