Il feretro arriva a Piazza del Popolo, un’ora prima dell’inizio della funzione. Parte un applauso che sembra durare in eterno. L’adunata rumorosa raccolta di fronte alla Chiesa degli artisti, contrasta con la quiete di Roma alla soglia del ferragosto. Un ressa accaldata preme per entrare. Alcuni inciampano nell’unica corona di fiori presente, omaggio del Comune di Roma, rimasta fuori sui gradini, perché Michela Murgia non voleva fiori recisi al suo funerale ma solo piante. Il feretro è ricoperto da foglie di carciofo, il suo ortaggio preferito e da grappoli di peperoncini rossi.
DOPO POCHI MINUTI la navata unica è già piena di corpi e la gerarchia del dolore tipica dei funerali è completamente rovesciata. Tra le fila di banchi amori, amici e parenti si mischiano a sconosciuti, colleghi, giornalisti. I volti noti, spalla a spalla con le persone comuni, influencer e insegnanti, giovani e vecchi. Scorrono trenta minuti prima dell’inizio della funzione, tra sussurri e ventagli, mentre la piazza fuori continua a riempirsi , quasi in duemila a sfidare un sole impietoso.
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Murgia, se la fede aggiunge libertà a un percorso di emancipazioneI VOLTI NOTI SONO TANTI e vengono da vari mondi, quello cattolico e quello lgbtq, il mondo della televisione, quello dell’editoria e quello dei social. Tra le prime file, insieme a Roberto Saviano, Sandro Veronesi, Lella Costa, Chiara Tagliaferri, Teresa Ciabatti, Chiara Valerio c’è anche, in lacrime, la segretaria del Pd Elly Schlein. C’è l’attore Lorenzo Terenzi, sposato di recente in articulo mortis e diversi figli d’anima, come usava chiamare la prole non biologica di cui in vita si è presa cura.
LA FUNZIONE INIZIA con il sacerdote, don Walter Insero ,che legge il messaggio del cardinale Zuppi. «Dio è libertà» – la frase risuona forte – «proprio perché ama e vuole essere amato non da servi ma da amici». Le parole del religioso provano a fare da cerniera tra la dottrina cattolica e l’eresia murgiana della famiglia queer: «Siamo generati non dal sangue ma dallo spirito» aggiunge.
Segue l’omelia e una messa tradizionale, tanto che per un attimo sembra di essere al funerale di una perfetta sconosciuta. Pochissimi riferimenti al ruolo pubblico di Murgia, molte le sottolineature su come la scrittrice sarda sia riuscita a conservare la fede.
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Michela Murgia, lotta contro i fascismi e passione per la verità: le sue bussole nella vitaVERSO LA FINE SI APRE però “la porta”. È il vangelo secondo Giovanni: Gesù si paragona non al pastore di gregge ma a una porta tra lo spazio sicuro dell’ovile e quello esterno dominato dall’incertezza. Un passaggio caro a Murgia, citato nel suo libro “God save the queer”. La porta è quella della chiesa rimasta aperta con la folla accalcata sulla soglia. È l’intercapedine in cui l’attività intellettuale di Murgia è restata sempre al riparo dal conformismo. È anche il varco attraverso il quale si inserisce la parte laica della celebrazione, con un Saviano dalla voce tremante che inizia a parlare dopo l’ultimo canto, nell’umidità ormai indistinta di sudore e lacrime.
«NON SIAMO STATI accomunati da ciò che abbiamo fatto ma da ciò che ci hanno fatto» afferma lo scrittore napoletano ricordando come Michela Murgia, santificata da un cordoglio trasversale, sia stata in vita bersaglio di insulti, attacchi, derisioni, anche da parte di politici e figure del potere, che si sono però astenute dal presenziare il suo ultimo saluto. «Attaccando Michela hanno provato a intimidire chiunque osi esporsi pubblicamente».
Seguono altri ricordi, a tratti esilarante quello di Chiara Valerio, che decide di declinare il discorso al futuro, perché è il tempo verbale dei desideri, producendo un paradossale racconto di ciò che Michela non “avrebbe detto”, ma “dirà”. «Farà diventare la parola queer appassionante quasi come la parola…resilienza» ironizza Valerio, riferendosi all’ultimo lascito politico dell’intellettuale. L’affermazione non apologetica di un modello affettivo differente. Esponendo la sua famiglia queer Murgia non ha voluto spiegare ma mostrare una possibilità che risuona tra i tanti esodati della famiglia stereotipata, quella dove ogni ruolo è distinto ed esclusivo, sigillato dal destino biologico. Un concetto forse più figlio della pubblicità che della storia.
La messa si conclude e il sacerdote licenzia i presenti con un «andate in pace». La bara viene condotta fuori dove la folla continua ad applaudire agitando in aria i libri della scrittrice, le bandiere arcobaleno e cartelli di saluto. La delegazione dell’Anpi intona Bella ciao, alcune femministe urlano «ci mancherai», altri fanno il segno della croce. E si resta lì tra diversi e diverse, sulla soglia, come una famiglia queer molto allargata a guardare allontanarsi l’auto scura sulla quale Michela Murgia saluta questo mondo.