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La cesura dei legami affettivi

La cesura dei legami affettivi"Belle dentro" – foto Renato Corsini

Intervento Un testo per Alias sulla detenzione femminile del Docente di Criminologia penitenziaria, Università degli Studi di Brescia

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 27 aprile 2019

Esiste una incompatibilità strutturale fra l’universo femminile e quello penitenziario, tradizionalmente restio a lasciarsi contaminare da qualsiasi elemento estraneo alla sua, presuntivamente ritenuta naturale, ruvidezza maschile. Incompatibilità del resto facilmente rinvenibile nella storia più o meno recente dell’istituzione carceraria anche (e per certi versi, diremmo, soprattutto) del nostro Paese. Dopo l’unità d’Italia, in materia carceraria furono discussi, e solo raramente varati, diversi progetti di riforma, per giungere fino all’approvazione del regolamento generale degli stabilimenti carcerari e dei riformatori governativi del 1891, che rappresentò il testo base delle istituzioni penitenziarie di una Italia neoliberale ma poco liberatoria: cubicoli ristrettissimi destinati alla punizione, celle senza luce e senza ventilazione diretta, tavolacci per giaciglio.

Se dopo la II guerra mondiale, la illuminata visione dei Padri Costituenti, condensata nella felice intuizione che diede origine all’Art. 27, III comma della Costituzione, sancì il principio rieducativo della pena e lo fece assurgere all’apice della gerarchia normativa, la speranza in un sistema penitenziario attento a non ignorare la specificità dei bisogni femminili venne frustrata dalla insuperabile tendenza a teorizzare il carcere in chiave maschio-centrica, manifestata anche dopo la Riforma del ’75 e addirittura anche dopo il Regolamento del 2000, il progetto normativo che in modo più convinto provò ad aggredire la coriacea scorza conservatrice del sistema penitenziario italiano, divenendo il primo testo in cui venne riconosciuta l’esigenza (peraltro poco esaudita) di dotare le celle di un accessorio del tutto sconosciuto al mondo carcerario e dalla dirompente modernità: il bidet.

Così, mentre la considerazione verso il mondo del carcere, soprattutto dopo le condanne comminate della CEDU al nostro Paese per le inidonee condizioni detentive, andava aumentato in consistenza, il Legislatore e l’opinione pubblica, hanno sempre rivolto maggior attenzione alle esigenze dei maschi reclusi, stipati in locali vergognosi e privati della dignità propria di ogni essere umano. E i riferimenti al genere femminile si sono succeduti solo sporadicamente o casualmente nel sistema – carcere, tendenzialmente incapace di guarire le ferite, tipicamente femminili, da pregressa vittimizzazione.

Un sistema che continua a recidere con inquietante precisione chirurgica i legami affettivi, chiusi all’esterno dei rumorosi cancelli di ferro la cui riapertura, un giorno, non fornirà alcuna garanzia di recupero di quegli stessi legami, messi a dura prova dalla lontananza e, forse ancor più, da una vicinanza fittizia, inscenata per poche ora al mese. Un sistema che consapevolmente aggredisce le matrici identitarie dei reclusi e non fa sconti neppure alla più significativa fra le esigenze di integrità: quella della identità genitoriale, qualificando irreversibilmente la cornice valoriale da cui scaturiranno i tratti salienti del futuro rapporto con i figli.

La carcerazione femminile, fra le tante forzature che presuppone, ne lascia emergere una in modo più evidente, ed è proprio il tentativo di compressione della femminilità, agito in modo più o meno palese dal carcere, attraverso l’indebolimento delle risorse identitarie. Eppure nessun testo normativo ha mai autorizzato il sistema carcere a limitare lo sviluppo della personalità umana, tantomeno se declinata al femminile. Anzi, la pena individualizzata, e quindi consapevole delle differenze, anche di genere, dovrebbe essere lo strumento indispensabile per il perseguimento dell’obiettivo rieducativo, costituzionalmente sancito.

Non stupisca quindi la asserita incompatibilità strutturale fra i due universi; l’accorato appello di Goliarda Sapienza (L’Università di Rebibbia, Rizzoli, 2006) nell’affrontare i rigidi meccanismi del carcere mediante una rinuncia, evocata al grido …da oggi la fantasia mi sia nemica… diviene un progetto di sopravvivenza fra le mura del carcere, arcigno valico di frontiera fra l’affermazione della propria identità e il rassegnato asservimento di regole tanto meno necessarie quanto più immodificabili. E se emerge un elemento descrittivo e definitorio di questa iniziativa, pensata e voluta da Renato Corsini, ci pare sia proprio quello della volontà e capacità, tutta femminile, di attraversare quotidianamente questo valico, più o meno consapevolmente, con gli eloquenti gesti, che le fotografie di Corsini ci svelano.

 

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