La centralità democratica della salute mentale
Si è svolto ieri a Roma all’Istituto Superiore di Sanità il convegno “Valorizzare e potenziare la salute mentale”. Il convegno organizzato dai promotori del Manifesto della Salute Mentale ha messo a fuoco tre questioni fondamentali. La qualità della ricerca e il rigore della verifica del lavoro svolto nei servizi pubblici. L’inserimento sociale, culturale, politico e lavorativo di chi soffre nella comunità in cui vive e il sostegno della comunità nella sua opera di accoglienza. La centralità della psicoterapia nelle equipe territoriali della cura psichica.
L’identificazione progressiva della cura con la terapia farmacologica, ha concentrato l’attenzione sul contenimento dell’angoscia che è una condizione necessaria, ma non sufficiente. L’assenza di un investimento vero nella qualità della vita delle persone sofferenti di una destabilizzazione psichica grave (che implica uno sforzo notevole per la valorizzazione delle loro risorse affettive e intellettuali), il loro abbandono a se stessi e alle loro famiglie (lasciate senza sostegno) e la loro emarginazione nella società civile e nei luoghi di lavoro (dai quali sono sempre di più espulse) hanno favorito l’eccesso della loro sedazione e la spersonalizzazione delle loro esistenze.
L’ipotesi che il malessere psichico destrutturante abbia un’origine puramente biologica non è stata mai dimostrata. Caduta l’ipotesi di una determinazione genetica delle “malattie mentali”, oggi si parla della trasmissione di una predisposizione ad ammalarsi. Accanto ai fattori di predisposizione genetica agiscono fattori sociali e microambientali/familiari. La complessa interazione tra questi fattori è scarsamente studiata.
L’idea di una “causa” unica del dolore psichico grave, la cui eliminazione libererebbe l’essere umano dalla pazzia, è priva di fondamento scientifico e anche di buon senso.
La psicosi è una condizione del singolo individuo, ma anche collettiva. Il nazismo era un fenomeno psicotico devastante e ha avuto una carica disumanizzante feroce, simile a quella del killer seriali o dei killer di massa, del tutto estranea ai “malati mentali”, che disumani non sono. E la paranoia insinuata oggi nelle nostre relazioni (incluse quelle internazionali), pur non raggiungendo i livelli di allora (speriamo bene per il futuro) configura una percezione del mondo delirante che con il nostro patrimonio genetico nulla ha a che fare.
La pazzia è come un tumore psichico che ci può colpire tutti quando si spersonalizzano i nostri rapporti di scambio. La vulnerabilità genetica ha un’incidenza variabile nella destrutturazione psichica del singolo, ma la visione alterata della realtà si estende ben al di là di un infelice destino individuale.
L’altra idea di cui scontiamo l’assurdità, è che la sedazione del dolore crea felicità. I farmaci leniscono il dolore psichico non perché ne eliminano i motivi, ma perché interrompono il circuito nervoso indispensabile per la sua estrinsecazione. Il contenimento farmacologico del dolore lasciato a sé, crea un ottundimento dell’esperienza. L’elaborazione del dolore consente di “umanizzarlo”. Lo restituisce alla sua funzione relazionale, perché al di là della sua “causa ultima”, il dolore psichico testimonia un’aporia affettiva e mentale nel rapporto con altro.
Nel campo della sofferenza psichica grave la terapia è prendere cura insieme di sé e dell’altro. Lasciare che l’altro (che con tutte le limitazioni che il suo substrato biologico, la società, il suo ambiente psichico gli hanno imposto, lotta per affermare la sua soggettività come cosa naturale) imprima con il suo modo di essere una trasformazione nel nostro assetto esperienziale. Così sente di esistere e che noi esistiamo.
Pensare di chiudere la pazzia nei pazzi per liberarcene, è una violenza totalitaria che ci rende disumani. Ascoltate la sofferenza psichica, invece di silenziarla, è fondamentale per la democrazia.
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