Non è un caso: il nuovo presidente del movimento internazionale Slow Food è Edward Mukiibi, giovane agronomo ed educatore ugandese.

Un segno della centralità dell’Africa nelle sfide globali intorno al cibo. «Africa is our business», ha detto il presidente rivolgendosi all’assemblea dei delegati africani a Terra Madre, il 23 settembre scorso. Ricordando poi i tre pilastri per l’azione: biodiversità, salvarla è la priorità assoluta; deciso attivismo politico (advocacy) per cambiare le scelte agroalimentari dei governi, non solo quelli del continente; educazione, dei giovani (che devono poter essere contenti di rimanere in Africa invece che migrare) ma anche degli adulti e di chi decide.
Lo sforzo è titanico: oltre ai cambiamenti climatici con le loro ripercussioni disastrose per l’agricoltura, oltre a uno sfruttamento che la decolonizzazione non ha ancora fermato, il continente africano sperimenta da anni la tragedia del terrorismo sedicente islamico.
Jean-Marie Koalga, consigliere Slow Food per l’Africa Occidentale e referente nazionale del movimento in Burkina Faso, ha voluto ricordare «le molte vittime di questo fenomeno provocato da eventi internazionali e dalle politiche nel Sub-Sahara. Il popolo Dogon, detentore e maestro della biodiversità, massacrato… i villaggi ormai fantasma». Per poi soffermarsi su un’esperienza di advocacy nel suo paese, da parte di Slow Food e di altri attori: «Contro gli Organismi geneticamente modificati (Ogm) e la perdita del patrimonio genetico; contro i giganti del cotone Bt che non si può riseminare e aumenta la dipendenza dei produttori».

Souad Azennoud ha spiegato come nel Nord del Marocco la reintroduzione del farro monococco, cereale resistente alla siccità, abbia giovato alla biodiversità e al reddito degli agricoltori, grazie anche a una cooperativa che commercia con cura il prodotto. Identico successo per le erbe medicinali e il pistacchio.

E, dall’Etiopia all’Uganda, dalla Costa d’Avorio al Malawi, dalla Tunisia al Malawi, dallo Zambia al Sahel, in tutto il continente africano gli orti (scolastici e di comunità) sono il migliore strumento per educare a pratiche agroecologiche e di rigenerazione, necessarie ad affrontare molteplici emergenze. Sono state elencate da John Kigawalo, coordinatore della rete giovani: fame e malnutrizione, furto delle terre, grandi quantità di veleni, deforestazione, monocolture che avanzano (hanno approfittato perfino del lockdown…).

Ma, per una efficace azione politica, come creare possibilità di manovra per i giornalisti che lavorano in media controllati dallo Stato? Lo ha chiesto un addetto ai lavori ivoriano. E, fuori dalle questioni puramente agroecologiche, anche questo è un problema di non poco conto.