La casa ingombra di fantasmi, Irina Brook
Teatro A Palermo, allestita nelle sale al piano nobile del settecentesco Palazzo Sant’Elia, «House of Us» della regista franco-britannica
Teatro A Palermo, allestita nelle sale al piano nobile del settecentesco Palazzo Sant’Elia, «House of Us» della regista franco-britannica
Difficile essere un dio, dicevano i fratelli Arkadij e Boris Strugackij – e Mundruczó Kornél al loro seguito. Non è facile nemmeno essere figlio di una divinità della scena, viene da aggiungere. Metti il giovane Konstantin Treplëv, il protagonista del Gabbiano di Čechov. È figlio di una famosa attrice. Ha scritto un dramma che si accinge a presentare davanti a lei, su un palco vuoto, privo di scenografia. Lo reciterà la ragazza che ama. Ma si lamenta che la madre è contro di lui, è contro la sua commedia. Sono necessarie forme nuove, il teatro contemporaneo è routine, dice. Capace solo di rappresentare uomini intenti a mangiare, a bere, ad amare, a portare la propria giacca. Forme nuove sono necessarie, ripete. È la fine del 1898 quando Il gabbiano va in scena trionfalmente al Teatro dell’arte di Mosca. E sul quel grido, su quella richiesta di forme nuove nasce la rivoluzione teatrale del Novecento.
Irina Brook ha avuto in sorte di essere figlia di Peter Brook e di Natasha Parry, vale a dire uno dei grandi innovatori del teatro del Novecento e di una delle grandi attrici che hanno incarnato la sua tradizione. E di questa difficoltà filiale racconta in House of us, la creazione allestita nelle sale al piano nobile del settecentesco Palazzo Sant’Elia, a via Maqueda, con gli allievi della scuola del Teatro Biondo e la partecipazione di Geoffrey Carey, figlio problematico di una star del cinema western. Ed è un viaggio all’interno di una casa che coincide, la casa voglio dire, con un’intera vita alle prese con quegli ingombranti fantasmi familiari. Forse più conflittuale il rapporto col padre; di grande vicinanza alle fine quello con la madre morta qualche anno fa, alla quale è infatti in qualche modo dedicato il lavoro. Bellissima. Fragile. Di un’eleganza silenziosa. Una principessa di un’altra epoca, la definisce Peter Brook nel suo libro di memorie, I fili del tempo, senza per altro prestare molta attenzione alla sua arte.
Irina Brook l’avevamo incontrata vent’anni fa proprio qui a Palermo (era il non dimenticato Festival sul Novecento diretto da Roberto Andò) con una messinscena di Zoo di vetro che forse nella memoria acquista un significato diverso alla luce di questa nuova prova – primo tempo di un progetto più ampio, nel prossimo anno sarà in residenza allo stabile del Veneto per poi fare tappa anche a Firenze, dopo un passaggio in Giappone. Poco interessata al luogo comune del teatro di Tennessee Williams come storie di passioni violente, di erotici furori, atmosfere torbide, alcol e sesso, bisogno di «essere» e desiderio di fuga, storie consumate nel clima caldo e umido del vecchio sud degli Stati uniti, la giovane regista dal nome importante e di ingombrante eredità ne faceva un delicato dramma senza luogo e senza tempo, dove solo un filo di jazz melodico e gli abiti un po’ demodé rimandavano a un tempo lontano. E forse, seguendo la regia leggera e incantata, non si era fatto abbastanza caso allora a quella trama familiare. La madre invadente che fu bella e corteggiata e non si rassegna al proprio declino, temprata al ricatto dei sentimenti. La figlia timida che è proprio il contrario di lei, ha lasciato la scuola per paura del confronto con il mondo reale e vive rinchiusa in un mondo tutto suo.
Irina accoglie sulla porta di casa gli spettatori, o forse si dovrebbe dire i suoi ospiti. E da lì comincia la sua anabasi, il suo viaggio all’interno. Si attraversa un guardaroba con gli stender dove stanno appesi tanti abiti femminili, mossi da un vento leggero che sale dal basso. La camera con il letto della madre, ci sono ancora i libri sul comodino e un giornale di cui era vorace lettrice. Una schiera di camerini trasparenti, dove i giovani attori stanno provando le loro parti nella commedia di Cechov, il monologo di Treplëv appunto ma non soltanto quello. E intanto sugli schermi appesi tutt’intorno vanno in loop i volti degli attori che raccontano una loro idea del teatro del futuro e un frammento del mitico Giardino dei ciliegi diretto da Brook padre nel 1981, alle Bouffes du nord, dove Natasha Parry recitava con Michel Piccoli.
In questo viaggio sentimentale non per caso si innesta un’altra stanza, ritrovata dalla memoria in un’altra casa, dove Geoffrey Carey seduto davanti a un’alta parete di scatole nere e in mezzo a pile di giornali racconta un altro difficile rapporto familiare, lui bruttino di fronte a un padre alto e biondo e molto macho. Phil Carey dubita persino della sua effettiva paternità, quelle storie di neonati scambiati nella culla, in pubblico non vuole nemmeno passare per suo padre, e quando sente il figlio manifestare il desiderio di fare l’attore gli risponde: mai a Hollywood, vattene in Europa. E fu così che iniziò per l’attore americano una nuova vita, a Parigi. Nelle scatole nere stanno riposte le cose accumulate nel corso di una vita, cose che non si è avuto il coraggio di buttare via. Camicie indossate una sola volta, tutte dello stesso colore; lettere dimenticate, che a rileggerle ora provocano un po’ di spaesamento, come i nastri del vecchio Krapp beckettiano.
Per arrivare così alla stanza di fondo, che si spia dall’esterno, da due porte d’angolo, ma l’azione che vi si svolge è ripresa in diretta da due telecamere e proiettata all’esterno su uno schermo circondato da fotografie di Cechov – sono forse le origini russe della famiglia che riemergono in maniera sotterranea. In questo ambiente di stampo quasi stanislavskiano, rischiarato da tante candele, si recita l’ultima scena del Gabbiano, l’ultimo incontro fra Treplëv e Nina, la ragazza che ha amato, che invano ora supplica di restare, è avviata lei pure sulla via del teatro. E quell’addio si carica della falsa allegria della festa, si canta in coro Katjuša, la popolare canzone d’epoca sovietica, si declama il monologo di Amleto suonando la chitarra, perché alla fine tutto si riduce a questo, essere o non essere.
Giunti al fondo della notte, il percorso si inverte. Il tributo alla memoria è stato pagato. Si è attraversato il dolore, e la solitudine, quel sentimento di esclusione e desiderio di stare in disparte che i giapponesi chiamano Ikikomori. Una malattia di cui Irina forse ha sofferto, di cui qui ci mostra il percorso verso la guarigione. Si tratta di depressione ma si parla di speranza, dice. Si tratta dei sogni dell’infanzia e dei tentativi di crescere.
Ora si ripercorrono all’indietro le stesse stanze, dove intanto però qualcosa è cambiato. Gli armadi ormai sono vuoti. Il letto è stato rifatto, un biglietto lasciato lì sopra dice «for you». Si prosegue in un ambiente popolato di uccelli di carta che pendono da fili invisibili in una soffusa oscurità. Una danzatrice appare in distanza, inquadrata nella prospettiva delle stanze. E ricompare anche Geoffrey Carey, sceso dal suo stallo per un ballo con la regista che ha seguito passo per passo gli spettatori lungo il percorso senza un gesto. In quella che fu la sala da ballo del palazzo, sono affidate a due grandi schermi le ultime immagini dell’artista, mentre la voce di Billie Holiday accompagna un’apertura forse pacificata al futuro. Ma il commiato si era già consumato nel rito collettivo denominato Toro-nagashi, la cerimonia giapponese delle lanterne fluttuanti sull’acqua, evocate da lumini che gli spettatori abbandoneranno con i loro pensieri su un piccolo specchio d’acqua. Un ritorno al mare che vuol dire aiutare gli spiriti dei morti a raggiungere l’altro mondo.
Irina Brook ci saluta con un cenno del capo, mentre usciamo da quella che per un momento è stata davvero «house of us», casa nostra. Fuori una triste movida si attarda su via Maqueda.
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