La casa è di chi l’abita. E il tempo è dei filosofi. La canzone di Francesco Bertelli scritta in ricordo della Comune di Parigi – e qui «versione» Youngang – su cui scorrono i titoli di coda è quasi il controcampo del film di Luis Fulvio, che arriva in prima visione su Fuori orario – sabato, 8 ottobre, Raitre dalle 0.20: La casa è di chi l’abita appunto, sottotitolo Porta Pia occupata. Siamo a Roma dunque, nel quartiere borghese intorno a Piazza Fiume, davanti alla «breccia» che tramanda l’unità d’Italia si snodano negozi eleganti, bar, ristoranti, musei, le vie di ambasciate e ministeri; il film ci porta altrove, oltre un portone, quasi un’ ideale «frontiera», dietro al quale vive una comunità che lì appare quasi imprevista. È la realtà di una casa occupata coi suoi abitanti e i suoi «rituali», le regole, gli spazi privati di ciascuno e la definizione di una norma collettiva che avviene nelle assemblee partecipate, durante le quali vengono affrontati e discussi i punti chiave che costruiscono – e garantiscono – questo universo. Si parla delle iniziative da intraprendere, delle leggi sui permessi di soggiorno che riguardano i molti immigrati che vi abitano, degli obblighi che ciascuno deve assolvere per non mettere a rischio sé e gli altri, del confronto con le istituzioni cittadine, e via dicendo.
Il film di Luis Fulvio -già autore di un magnifico «documento» sul Settantasette – ’77 No Commercial Use – non è però un film su una occupazione, piuttosto a partire da lì, e in una situazione precisa, quella di «Porta Pia occupata», prova a capire come si può raccontare questa esperienza, con quali immagini, da che punto di vista. Ogni passaggio così prima che definire una «storia» pone una domanda al proprio ruolo di filmmaker, al dialogo che si instaura tra la macchina da presa e il mondo con cui si confronta.

ALL’INIZIO c’è una relazione di reciproca fiducia con gli occupanti – altrimenti non potrebbe essere per entrare e riprendere, anche perché nel racconto «comunitario» si intrecciano spesso momenti privati nei singoli spazi, o figure che tornano più spesso di altre. Il regista mantiene sempre la sua posizione rispetto alla sua «materia», e guarda «wisemaniamente a questa «istituzione» e alla sua battaglia per un diritto fondamentale, la casa, all’interno della quale affiorano altri conflitti della nostra società, economici, sociali, che la rendono una possibile lente sul mondo. Il punto, o meglio la scommessa, è proprio questo: far sì che tutto ciò sia visibile senza sovrapporre giudizi, interpretazioni, formati ideologici, e anzi lasciando posto alle contraddizioni che inevitabilmente si presentano.
Sui bordi di quell’uscio anonimo si gioca una fortissima tensione che riguarda la rappresentazione di un’esperienza, gli stereotipi che spesso la circondano, la retorica che ne confonde la pratica, e l’allenamento del cinema. Ci sono persone molto diverse a Porta Pia, che arrivano da paesi diversi, dall’Africa, dall’America latina, o anche da altre zone di Roma, che hanno esperienze e aspettative diverse: a unirli è questa esigenza abitativa a fronte della mancanza di risposte da parte dello stato.
Ma come funziona una convivenza? È questa idea di «comunità» mai celebrativa quanto il film riesce a mettere a fuoco con precisione anche nelle sue difficoltà, o forse a partire da queste, per darne una narrazione viva nella quale arrivano con forza i sentimenti del nostro tempo, quei bisogni che non dovrebbero mai essere messi da parte.

NELLO STESSO «contenitore», Un posto sulla terra, stasera sempre Fuori orario propone Daguérreotypes di Agnès Varda (ancora in prima visione), il racconto di un pezzetto della parigina rue Daguerre, dove la regista ha sempre vissuto, fra il civico 70 e il 90. È lì che incontriamo alcune figure del quartiere, il fornaio, il macellaio, in ogni negozio prendono vita storie, ricordi, impressioni. Diceva Varda:«Non mi interessava fare un film politico. Non sono andata a chiedere: E il fisco? E le tasse? Come vota? Ho invece cercato di cogliere il modo di vivere di queste persone, i loro gesti».