Quando il conte bergamasco Giacomo Carrara muore, nel 1796, lascia patrimonio, un edificio e la propria raccolta di dipinti per la creazione di una «Galleria con annessa scuola di disegno». L’insieme doveva essere, da Bergamo, un modello esemplare e «nel suo genere il primo ornamento della Lombardia»: una collezione che raccontasse una linea di sviluppo della pittura locale e fosse, insieme, esempio per artisti e documento per cultori.

La galleria di Carrara era organizzata secondo l’amore per la bella pittura, senza sezioni stilistiche, tematiche o ideologiche, con una prima attenzione classicista – sull’asse antibarocco Correggio-Carracci – e didattica, e un successivo amore per la civiltà pittorica bergamasca. Le periodizzazioni di una possibile storia dell’Italia cominciavano a incrociare le aree create dalle scuole pittoriche locali, a un passo dalla lezione dell’abate Lanzi, mentre la cultura illuminista di Carrara permetteva un travaso tanto tipico dell’epoca: con il lascito l’erudizione si trasformava in impegno civico, attraverso una nozione comunitaria di uso e di partecipazione.

Dal vecchio stabile settecentesco lasciato dal conte, l’architetto Simone Elia ricava nel 1810 l’edificio dalle forme neoclassiche addossato alle colline di Bergamo Alta che ancora ospita l’istituzione. Un rifacimento che di fatto cancella la configurazione museologica proposta dal fondatore, ma è solo il primo dei cambiamenti che il museo affronta nella sua storia. Nel 1835, ad esempio, si vendono all’asta più di duemila dipinti della raccolta originaria. Ci si liberava delle opere «di cui non venne trovata opportuna la conservazione» (così gli annunci pubblicati): quadri attribuiti a Baschenis, Ceresa, Ghislandi, Longhi, Magnasco, Ricci, Strozzi, ma anche più antichi, magari bisognosi di restauri costosi, o di autori di cui già esistevano altre prove in collezione; e quindi via anche i Bassano, Bellini, Cariani, Lotto, Luini, Moroni eccetera. Perché il conte Carrara aveva «preso a collocare i suoi quadri ad uso come di tapezzeria», perciò l’allestimento andava sfoltito, i dipinti sistemati, incorniciati, riordinati secondo classi di valore e criteri diversi da quelli che avevano dato origine al museo. Poi, per via di altri legati, la raccolta si arricchisce di nuovo: nel ’50 è lasciata dal conte Carlo Marenzi la Madonna con il Bambino di Mantegna; nel ’66 giungono in Carrara duecentoquaranta opere dalla parcellizzazione della collezione del conte Guglielmo Lochis. Ci sono Bellini, Canaletto, Raffaelo, Tiziano, e rientrano in pinacoteca persino alcuni quadri, venduti all’asta del ’35, che lo stesso Lochis aveva acquistato. Negli anni successivi si fanno lavori, si aprono lucernari, e il museo cambia ancora. E di nuovo, nel 1891, la collezione lievita per numero e qualità con il lascito di Giovanni Morelli.

Il museo continua a reagire come un organismo, tra respiri ampi e contrazioni, ad aggregazioni e riduzioni, momenti di stasi e dibattiti. Ogni rinnovamento ha ripercussioni sulla gestione quotidiana, scientifica, didattica, ma lo rende uno strumento che, investendo su aree di conoscenza profondamente connesse con ciò che chiamiamo bene culturale, vive mettendosi in pari con i cambiamenti del presente.

Molta della «robaccia» – secondo Morelli – accumulata dal conte Lochis tra i capolavori nella villa alla Crocetta di Mozzo, poco fuori Bergamo, ci pare oggi estremamente interessante; così come oggi non ci sogneremmo mai di relegare la predella della Disputa di Genga nei depositi, o di vendere un Fra Galgario per far cassa e liberare una parete. Eppure questi riassetti subiti dal museo non vanno solo rubricati tra le disattenzioni delle vecchie stagioni: fotografano, come in un diagramma, il concetto mutevole di bene artistico, tra fortune e sfortune di autori, correnti, e cambiamenti di gusto.

Annibale Fontana, «Sacrificio di Isacco», 1560-’70 circa

Nel 1998 Federico Zeri lasciava alla Carrara quarantasei sculture. Per lo storico dell’arte l’istituzione bergamasca e il Poldi Pezzoli di Milano erano gli unici due musei realmente «funzionanti» della Penisola. Una provocazione che aveva però un significato preciso: entrambe le collezioni – quella milanese e quella bergamasca – erano nate da investimenti e si erano arricchite grazie alle donazioni di privati; la loro fisionomia si doveva a conoscitori come Morelli corrispondendo, in fondo, a una mappatura precisa di trasporti e amori, persino ossessivi, per l’arte antica.

Ogni donazione importante cambia inevitabilmente l’assetto del museo. L’ultimo riallestimento è stato appena inaugurato, e ci dice di nuovo qualcosa sui bisogni e i desiderata del presente: un’attenzione più spiccata al pubblico, alla possibilità di scambi e spostamenti (con un deposito interno per le opere non esposte, e sistemi flessibili per la movimentazione), uno spazio maggiore per mostre temporanee, e nuovi ingressi di opere. Rispetto al precedente e ricchissimo riordino aperto nel 2015, la differenza la fanno anche le intromissioni della scultura e di quelle che una volta si definivano «arti minori», dovute perlopiù alla donazione di Mario Scaglia (più di mille opere tra placchette, bronzetti, medaglie, ma anche dipinti, come quello di Baschenis messo nella sala del Seicento bergamasco). Un lascito che ha permesso confronti taglienti, spesso illuminanti, incuneati nel percorso sfoltito della pinacoteca, che s’imprimono nella memoria di chi di solito sosta pigramente solo su superfici dipinte. In pochi passi, per esempio, lo sguardo può sostare sul Pisanello pittore e sul Pisanello medaglista, grazie ad alcuni dei profili in tempera e in bronzo più famosi del Quattrocento: Lionello d’Este, Francesco Sforza, Filippo Maria Visconti (è l’unico museo al mondo dove questo confronto così serrato è possibile). Altri pezzi, che potevano stare negli studioli di umanisti e letterati del Quattro e Cinquecento, aiutano a fantasticare su dialoghi implausibili.

Un San Gerolamo di Alvise Vivarini, con rocce a scaglie e panneggi di marmo, sta accanto alle placchette del veronese Moderno e del Riccio. I tre artisti sono lì intorno, che si animano su quanto è piaciuto questo o quel pezzo della bravura di Bellini e quanto amore per Mantegna e, attraverso di lui, per i frammenti antichi e per i giardini dove ronzano api in lamina d’oro su fiori metallizati – per parafrasare Roberto Longhi. Così come, più avanti, dopo la metà del Cinquecento, la riduzione in placchetta di un cristallo di rocca inciso dallo scultore milanese Annibale Fontana ci dice dei livelli altissimi raggiunti nelle laboriose botteghe della città lombarda. E via di seguito, in un percorso che avanza per sezioni cronologiche e geografiche, con sfondi colorati che variano di tono, e un’illuminazione che si concentra nella fascia centrale della parete, sfumando ai margini.

Bisognerà tornare a Bergamo verso l’estate, quando aprirà, per la prima volta, anche il giardino, collegamento ideale tra la Carrara e le mura della città. Per rivedere meglio il museo, riconsiderare le scelte dell’esposto fantasticando su altre chiacchiere tra fantasmi; studiare, ragionare su quella che è una delle raccolte d’arte antica cresciute più di recente, e con dinamiche diverse da quelle degli altri grandi musei italiani; per rivedere meglio anche la mostra di Cecco del Caravaggio (a cura di Gianni Papi e Maria Cristina Rodeschini, al primo piano, fino al 4 giugno), e osservare e cercare di comprendere – divertiti –, chi si fa selfie di fronte all’opera del duo californiano Fallen Fruit, che riveste scale e ascensore con fiori, frutti, cetrioli, putti, nuvole, mani, figurette e occhi di sante e santi e tutto il trovarobato possibile tirato giù dai quadri della pinacoteca, in un universo dove tutto è sublimato in ornamento, sontuoso, un po’ fatato, un po’ frivolo.