Cultura

La carica degli studi «zombie»

La carica degli studi «zombie»

Scienza Ioana Alina Cristea, neuroscienziata e docente a Padova, spiega come le frodi nella ricerca stiano aumentando. Secondo le analisi più recenti, in alcuni settori un terzo delle indagini sarebbero truccate. Ma le agenzie regolatorie che autorizzano i farmaci ora sanno come difendersi. E le riviste più serie obbligano gli autori a mettere a disposizione i dati originali per riesaminarli

Pubblicato più di un anno faEdizione del 21 maggio 2023

In inglese si chiamano «zombie trial». Sono gli studi clinici (trial, in inglese) su farmaci e terapie che contengono dati sbagliati o inventati di sana pianta. Di solito, nei trial si divide un certo numero di pazienti volontari in due gruppi in modo casuale; a un gruppo si somministra un farmaco sperimentale mentre agli altri, all’insaputa loro e degli stessi ricercatori, si somministra un placebo. Dal differente esito della malattia nei due gruppi si misura l’efficacia del trattamento sperimentale. È dopo studi come questi che i farmaci vengono autorizzati alla vendita e arrivano nei nostri ospedali e nelle nostre farmacie.

IL NOME di «zombie», gli inquietanti morti che camminano, glielo ha dato John B. Carlisle, un anestesista inglese conosciuto soprattutto per le sue doti statistiche e per il suo infallibile fiuto quando si tratta di scovare frodi scientifiche. Dal 2017, Carlisle ha iniziato a esaminare con più attenzione i trial clinici inviati alla rivista specializzata Anaesthesia (di cui è redattore ) con una richiesta di pubblicazione. Carlisle ha chiesto agli autori i dati originali raccolti durante gli studi. Risultato: su 526 trial esaminati, 73 (oltre il 14%) sono risultati «zombie». Contenevano cioè numeri non realistici, grafici copiati oppure tabelle in cui a molti pazienti diversi corrispondevano valori identici, probabilmente frutto di un lavoro di copia-e-incolla.
Sono risultati truccati il 100% degli studi provenienti dall’Egitto, il 75% di quelli dall’Iran, circa la metà di quelli realizzati in India, Cina e Turchia. «Si tratta verosimilmente di una sottostima», ha rincarato la dose John Ioannidis, docente all’università di Stanford e uno dei massimi esperti mondiali sulla trasparenza e l’etica della ricerca, in un commento al risultato di Carlisle. «Nemmeno gli studi realizzati negli Usa o in Europa sono a prova di bomba. Ma una percentuale più bassa riporta errori così grossolani nelle tabelle. Tuttavia, molta ricerca accademica in questi Paesi è di bassa qualità. Inoltre, nei trial finanziati dall’industria che vengono valutati dalle agenzie regolatorie, errori troppo evidenti danneggerebbero il processo di autorizzazione».

POCHI REDATTORI si prendono la briga di fare il lavoro certosino di Carlisle. Se lo facessero, probabilmente otterrebbero risultati simili. «Credo che le riviste debbano partire dal presupposto che tutti gli studi proposti siano potenzialmente truccati», ha scritto. Ne va della nostra vita, perché sulla base di questi studi si autorizzano i farmaci che usiamo tutti i giorni.
I sospetti di Carlisle e Ioannidis sono probabilmente fondati. «Più analizzo le ricerche e più mi imbatto in trial zombie», ha confermato al manifesto Ioana Alina Cristea, neuroscienziata rumena che insegna all’università di Padova ed è specializzata nella caccia alle frodi. Lei ha denunciato il tema durante l’annuale congresso 4words – le parole dell’innovazione in sanità, che si è tenuto a Roma l’11 maggio scorso. «Per capire se uno studio è autentico, occorre esaminare i dati originali, ma molti autori si rifiutano di condividerli adducendo questioni di privacy. E la legge è dalla loro». In Italia, per esempio, il garante della privacy chiede che per riutilizzare i dati dei pazienti che hanno partecipato a uno studio serva un nuovo consenso informato da ciascuno di loro, un’operazione dispendiosa e spesso impossibile. «Magari nel frattempo il paziente è morto – ha affermato la studiosa –. Non è raro quando si ha a che fare con terapie oncologiche».

IL PROBLEMA delle frodi scientifiche non è nuovo ma è stato a lungo sottovalutato. L’Associazione internazionale degli editori scientifici, tecnologici e medici, che raccoglie centoventi editori del settore, finora stimava intorno al 2% la percentuale delle ricerche truccate che vengono pubblicate dalle riviste. A quanto pare il problema è molto più esteso e in crescita.
Il principale indiziato del fenomeno sono le cosiddette «fabbriche di pubblicazioni scientifiche», vere e proprie aziende specializzate nel generare studi scientifici falsi ma all’apparenza autentici. Queste società offrono i loro servizi agli scienziati che hanno bisogno di aggiungere pubblicazioni al proprio curriculum per ottenere cattedre universitarie e fare carriera. Soprattutto nei Paesi dove vige il principio «publish or perish» (pubblica o muori) ma i controlli sull’etica della ricerca sono più blandi.

SONO TRUFFE a basso rischio, perché le riviste scientifiche di scarsa qualità non hanno interesse a aumentare i controlli: i ricercatori pagano migliaia di euro per pubblicare le loro ricerche per sostenere i costi editoriali e agli editori conviene chiudere un occhio. «Se una rivista scientifica si accorge che una ricerca è manipolata e la rispedisce al mittente, nulla impedisce che poi la stessa sia pubblicata altrove, su una rivista meno attenta – ha aggiunto Cristea –. Anche tra quelle serie, soltanto alcune come il British Medical Journal o Public Library of Science obbligano gli autori delle ricerche a mettere a disposizione i dati originali per riesaminarli».
Ma sono eccezioni. «Quando i ricercatori russi hanno pubblicato sull’autorevole rivista Lancet i risultati positivi sul vaccino anti-Covid Sputnik V, da molti ricercatori ritenuti sospetti, l’accesso ai dati originali è stato negato. Se si vuole migliorare il sistema, è necessario che questo standard diventi obbligatorio. Negli Usa, ora non è possibile ricevere fondi di ricerca dal National Institutes of Health (la principale agenzia di ricerca pubblica biomedica negli Usa, ndr) se non si pubblicano anche i dati originali».
Dato che la ricerca accademica è in massima parte sostenuta da fondi pubblici, usare i soldi dei contribuenti per pubblicare ricerche false in quantità rappresenta uno spreco di risorse intollerabile. Ancor di più se le ricerche zombie vengono usate per autorizzare nuovi farmaci, con un ovvio rischio per la salute pubblica.

FORTUNATAMENTE, alcune agenzie regolatorie che autorizzano il commercio dei farmaci hanno sviluppato anticorpi contro il fenomeno. «La Food and Drug Administration (Fda) statunitense, ad esempio, quando si tratta di valutare una terapia o un vaccino chiede i dati originali alle case farmaceutiche per farli riesaminare a ricercatori indipendenti», ha specificato Cristea. Inoltre, la Fda accetta solo di esaminare trial clinici che si sono svolti negli Usa. Come tutte le agenzie federali, la Fda dovrebbe anche mettere a disposizione di tutti i dati in suo possesso. Ma non lo fa perché rischia di infrangere la proprietà intellettuale detenuta dall’agenzia. Per il vaccino Pfizer contro il Covid è servito l’intervento della Corte suprema perché, tra mille difficoltà, la comunità scientifica potesse riesaminare i dati che hanno condotto all’autorizzazione del vaccino.
L’Agenzia europea del farmaco (Ema) invece non richiede i dati originali raccolti nella sperimentazione di un farmaco. Tuttavia, ha inserito l’accesso ai dati tra le dieci priorità per il futuro. Nel 2022 è stato avviato un progetto pilota in questa direzione, a cui le case farmaceutiche possono aderire su base volontaria. I risultati dell’esperimento devono ancora arrivare.

 

 

SCHEDA

Arrivano le stampanti genetiche

Il centro studi di Washington «Nuclear Threat Initiative» (Nti) mette in guardia: stanno per arrivare le «stampanti genetiche». Macchine in grado di sintetizzare il Dna esistono già in molti laboratori industriali e commerciali e sono in grado di assemblare al massimo poche centinaia di «basi» – le unità di base da cui è composto il Dna di ogni organismo. In un report appena pubblicato, la Nti spiega che nei prossimi 2-5 anni questi strumenti saranno in grado di creare sequenze genetiche lunghe anche 7000 basi (le dimensioni di un piccolo virus). La possibilità di assemblare un virus sintetico in laboratorio schiacciando un bottone pone ovvi problemi di sicurezza. «Aumenta il potenziale per abusi e per la creazione di nuovi patogeni», spiega Sarah Carter, fra le autrici del rapporto, che invita a prendere sul serio i rischi con nuove linee guida che impediscano che queste macchine finiscano nelle mani sbagliate o inesperte. Il biologo del Mit Kevin Esvelt è d’accordo: «Se dobbiamo prendere sul serio la non proliferazione pandemica così come facciamo con quella nucleare, è necessario che i nuovi dispositivi abbiamo dispositivi di sicurezza, vigilando su una lista di rischi da aggiornare».

 

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.



I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento