Cultura

La capitale senza limiti, tra predatori urbani incontentabili

La capitale senza limiti, tra predatori urbani incontentabiliUn fotogramma tratto dal film di Gianfranco Rosi, «Sacro GRA» (2013)

NARRAZIONI «Remoria», di Valerio Mattioli edito da minimum

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 7 settembre 2019

Il mito costruito ad arte dai potenti definisce la Roma fondata da Romolo come una «città quadrata». La figura spigolosa e tetragona serve a evocare mura di cinta spigolose, arroccamento gerarchico e ordine geometrico. Per vendetta della storia, Roma non poteva apparire più diversa. Non è caratterizzata da un quadrilatero bensì da un cerchio: il Grande raccordo anulare. Parte da questa constatazione Valerio Mattioli in Remoria (Minimum Fax, pp. 283, euro 17) per raccontare la storia di una «città invertita».

IL GRA NON È UN CONFINE, non delimita un bel nulla. È piuttosto una voragine che indica la sodomia di Pier Paolo Pasolini, i varchi trasformativi dell’esoterismo filosofico di Luciano Parinetto e i buchi dell’eroina di film neo-neorealisti quali Amore tossico e L’imperatore di Roma.
Per necessità di analisi e libera scelta stilistica, Remoria è un testo pieno di cose. Attraversa discipline e linguaggi, di tanto in tanto fa capolino anche la prima persona singolare con storie vissute dall’autore. Ne viene fuori un libro che ne contiene tre: una cartografia esoterico-sociale di Roma, una fenomenologia del coatto e una rievocazione della scena rave capitolina degli anni Novanta. Mattioli si lascia sfuggire una dichiarazione poetica quando descrive Stefano Tamburini, artista della «borgatasfera» e autore del cyborg coatto Ranerox: «ricavare forme dalla putrefazione della materia che in quella materia non sono previste».

CON LA SCONFITTA del ’77, che Mattioli intende come una sorta di «’68 coatto», comincia la divaricazione tra il proletariato giovanile metropolitano e movimenti rivoluzionari. Dalla putrefazione di una città su un territorio troppo vasto per avere un centro e troppo disordinato per averne tanti emerge una nuova figura sociale: un «predatore dalla voracità senza limiti», soggetto neoliberale quando non esplicitamente fascista.

Il termine coatto deriverebbe dalle costrizioni carcerarie cui spesso sono sottoposti i (sotto)proletari. Ma secondo altri, aggiungiamo noi, il coatto è un androide ante litteram, chiamato in questo modo per le pose rigide da bullo e i movimenti artificialmente impostati.
Questa accezione trova nuova forza, si intensifica con una botta di adrenalina, alla fine del secolo scorso, quando in periferia arrivano i rave party. La musica techno e le droghe sintetiche rendono il coatto elettronico ancora più coatto. Mattioli racconta di aver amoreggiato «sottocassa» con una ragazza per una notte intera per poi scoprire, grazie alle luci dell’alba, che si trattava di una sua compagna delle scuole elementari. Allo stesso modo, sostiene, l’irruzione della musica elettronica negli spazi vuoti di Remoria costituisce un momento inatteso e selvaggio di ricomposizione d’amorosi tra i militanti politici e i coatti della «borgatasfera».
Viene da pensare tuttavia che il coatto, inteso come soggetto sottoproletario maschio-bianco-violento tenuto al di fuori di ogni processo produttivo pare ormai essersi dissolto nelle periferie meticce e difficilmente incasellabili dal punto di vista sociologico. Mattioli sembra intuirlo quando dice che oggi i modelli del centro invadono tristemente le periferie: le birre da tre quarti ai tavolini di formica vengono rimpiazzate dalle Ipa, col sottofondo di musica elettronica per fighetti.

UN PO’ INGENEROSAMENTE, i centri sociali, che pure in quegli anni si sono sparsi come funghi nella periferia infinita, sono descritti come luoghi che cercano affannosamente di «aggiornare il concetto veteromovimentista di socialità». E l’autoproduzione musicale? «Il turboproletariato non sapeva che farsene di strofe che recitavano Rap: poesia della strada», sentenzia Mattioli. Solo la cultura rave, questa è la sua teoria, riesce a «trasferire nei centri sociali un caleidoscopico complesso di suggestioni futuribili». L’assunto è che il militante politico non sia anche un animatore sottoculturale.
Le categorie dell’attivista e del consumatore-produttore di musica, stili e linguaggi rischiano così di fossilizzarsi in un dibattito forse poco realistico che contrappone rigidamente movimenti e sottoculture. In questo modo rischia di sfuggirci che quando un progetto politico riesce ad interagire con la capacità di creare mondi sotterranei e circuiti alternativi, delle sottoculture l’effetto è dirompente. È questa la vera formula alchemica da perseguire, che trasforma l’alterità in antagonismo.

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