Visioni

La canzone italiana in una locomotiva

La canzone italiana in una locomotiva

Extramusei Musicista e poi ristoratore, da lui passano tutte le star, Letterio Tripodi, detto Erio, inventa a Vallecrosia uno spazio in cui raccogliere la memoria musicale nostrana. ai dischi dell’800 alla chitarra di Celentano, un viaggio nell’evoluzione del suono pieno di materiali preziosi che cercano ora una nuova sede

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 21 agosto 2015

«E tu ? Con quel corpo e quella voce che ce stai a ffà qui ?». Leggenda musicale vuole che fu Anna Magnani, dietro le quinte di uno spettacolo, l’autrice del rude complimento, tutto in stile Nannarella, a Vittoria Mongardi. Vittoria, fisico e portamento splendidi, veniva dalle passerelle della moda. Le aveva abbandonate quando il maestro Cinico Angelini, dopo averla sentita cantare, la volle per sostituire niente meno che Nilla Pizzi a Sanremo, nel brano Angeli senza cielo. La voce e il fascino della Mongardi conquistarono il pubblico, raggiungendo l’apice con la hit di quegli anni, Aveva un bavero, Sanremo 1954. I versi, di sapore agreste e innocenza cristallina, non scavavano nelle profondità amorose, limitandosi a raccontare di un giovane immaginiamo prestante, che «Aveva un bavero color zafferano/ e una marsina color ciclamino/ Veniva a piedi da Lodi a Milano/ per incontrare la Bella Gigogin».

 
Nel frattempo, il grande direttore d’orchestra e fisarmonicista Gorni Kramer aveva scritto per Vittoria Il mambo del trenino. Ed è su un treno, oggi, che forse troverete memoria della Mongardi, oltre ad ammirare il violino e la bacchetta di Cinico Angelini, accanto alla fisarmonica di Kramer.
Il treno, locomotiva del 1910 battezzata Cirilla e due vagoni Centoporte del 1927, è la sede del Tempio Museo della Canzone italiana e della Riproduzione, creato nei primi anni ’80 da Letterio Tripodi detto Erio, a Vallecrosia, Liguria, un tiro di voce dalla Francia. Che bella vita, quella di Tripodi, divisa tra note di spartiti e sapori di cucina. Figlio di immigrati calabresi, apre gli occhi al mondo nella cittadina francese di Mentone, il tre settembre del 1938. A soli diciassette anni è commis di sala presso l’Hotel Metropole di Montecarlo, e il suo lavoro gli permette di avvicinare personaggi di varia celebrità. In parallelo, la sua anima melodica lo porta a vincere, nel 1956, un concorso canoro al Théatre de Verdure di Mentone e altre manifestazioni sempre in Costa Azzurra.

 
L’Italia non gli è matrigna: Microfono d’Oro al Morgana di Sanremo nel 1950, Microfono d’argento a Ventimiglia nel 1951. Poi è voce solista del The Jolly Quintet, gruppo francese di riconosciuta bravura. Sette anni dopo si iscrive al Conservatorio di Monaco, dove incontra alcuni componenti dell’ensemble folcloristico La Palladienne, e ne entra a far parte esibendosi in diversi tour europei.
L’Erio compositore mette su spartito un considerevole numero di canzoni, eseguite e poi incise dal Reuccio Claudio Villa e da Giorgio Consolini. Nelle vesti di professionista del settore alberghiero, Tripodi stringe amicizia con varie star musicali. Tra di esse la coppia (divenuta celebre da noi grazie alla trasmissione pubblicitaria Carosello) composta da Xavier Cougat, direttore d’orchestra con cane del peso di un paio di etti sempre in braccio, e della fatalmente bionda Abbe Lane, timbro vocale pieno di promesse.

 
Nel 1960, a Bordighera, Erio diventa gestore del ristorante La baita, clienti affezionati le star melodiche più ascoltate del momento: Luciano Tajoli e la moglie Carla Boni, Nunzio Gallo, il Duo Fasano, Domenico Modugno, Johnny Dorelli, Gino Paoli, Sergio Bruni, il napoletano Aurelio Fierro. Il futuro ormai prossimo del Ristorante da Erio, Vallecrosia, diventa presente nel 1964. Alle pareti e in ogni spazio lasciato libero dai tavoli trovano collocazione autografi, foto con dedica, ritratti, strumenti musicali, cimeli, di personaggi e storie della canzone italiana.

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L’idea del Museo germoglia dalla mancanza sempre più evidente di spazi in cui accogliere i tesori che aumentano e continuano ad accumularsi, ma soprattutto da un sentimento, una sorta di missione, che Erio ricorda così nelle righe di un suo scritto «Per me che avevo la canzone nel cuore, gli idoli che popolavano i miei sogni artisti e interpreti venivano immaginati come personaggi di uno straordinario pianeta chiamato Galleria del Corso. Quando, alcuni anni fa, andai a Milano per scoprire quel mondo magico, ne conobbi i personaggi e fui felice di trovare la sensibilità e la cordialità che mi ero aspettato. Ma fui grato, soprattutto, dell’amicizia che mi donarono e mi dimostrarono rendendomi la visita. Poi, lentamente ma inesorabilmente, una pianificazione emarginante sgretolava quel mondo di artisti che aveva scritto la storia della canzone italiana. Un’amara realtà, troppo difficile da accettare. È nata così l’idea di creare un Museo che tenesse viva nel tempo la testimonianza di una storia d’arte popolare da custodire, da far ritrovare e da far conoscere, soprattutto ai giovani, nella sua grande tradizione». Museo e ristorante devono essere, quasi, una sola cosa. Ma sul terreno del locale non si può edificare. Il vecchio bardo ha una trovata geniale: compra la locomotiva e i vagoni, li restaura, li adatta a spazi espositivi, li mette su binari rimovibili. Un bell’applauso, signori (scommettiamo che anche il Mike nazionale è passato da lì per un piatto di pesce?), e che le porte si spalanchino.

 
Nel 20005, davvero troppo presto, Erio chiude gli occhi. Lo scettro del ristorante e del museo, oltre a quello della Fondazione Erio Tripodi, passano alla figlia Anna. È lei a farci da guida turistica e spirituale tra i reperti che il papà ha lasciato per la gioia e lo stupore dei visitatori nei saloni ricavati dentro i due Centoporte. Allora, Anna, punzecchi la nostra curiosità. «Mio padre ha voluto costruire un viaggio nella storia dell’evoluzione del suono. Quindi si comincia dal primo disco quadrato di cartone, inizi ’800, e si continua con il rullo chiodato, gli organetti, i grammofoni. Il vagone numero uno ospita il mondo dell’imitazione del suono, mentre il vagone numero due accoglie le registrazioni con l’uso della voce e gli strumenti per poterle effettuare: dagli albori del fonografo di Edison ai microfoni, le radio, i registratori Geloso, i juxe box.Cosa importantissima: tutti dispositivi e le apparecchiature funzionano».

 

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Segnalazioni speciali vanno poi al sax di Fausto Papetti, autore di LP con copertine per quei tempi molto piccanti; a una chitarra del Molleggiato Celentano, al passaporto di Giacomo Puccini, a uno spartito inedito di Ruggero Leoncavallo. Ma la vera, viscerale passione di papà Tripodi era il Festival di Sanremo. Lo conferma Anna, cresciuta tra i fornelli di Vallecrosia e i ritornelli in gara, a quei tempi, nel Salone delle feste del Casinò di Sanremo, poi detronizzato dal teatro Ariston. «Mio padre era innamorato della storia del Festival, collezionava manifesti, spartiti, contratti di ingaggio, tutti originali».

 
E qui si apre il capitolo di una piccola vicenda, specchio di quell’Italia incapace di valorizzare il suo immenso patrimonio. Scorrendo l’elenco dei pezzi che appartengono al museo, si scopre, ad esempio, che soltanto settantamila dischi su duecentomila sono catalogati, diecimila spartiti musicali su trecentomila, milleduecento spartiti musicali su cinquemila. Lasciamo ancora la parola ad Anna: «Per il sessantesimo del Festival avevamo allestito al Palafiori una mostra meravigliosa, novecento metri quadri. L’amministrazione comunale non ha colto la bellezza e il valore culturale dell’iniziativa, e dopo un mese e mezzo l’ha chiusa. Tutto il materiale, e molto altro, è imballato nel deposito del museo, in lotta con la muffa e l’umidità. Abbiamo, ad esempio, i contratti firmati da Mina e Celentano per la partecipazione al Festival: cento lire la prestazione, trecentocinquanta la penale se non si presentavano.

 

 

Le migliaia e migliaia di dischi portano il nome di interpreti come Beniamino Gigli e di compositori come la coppia Bixio/Cherubini; gli spartiti di Sanremo non si contano». E allora, Anna, che si fa? «Dal vostro giornale vorrei lanciare un appello. Siamo in cerca di una sede nella quale rimontare e arricchire la mostra, avendo in più uno spazio per allestire mostre temporanee a rotazione, che ci permettano di far uscire fuori dagli scatoloni il nostro tesoro, salvarlo, metterlo a disposizione del pubblico. Se la sede fosse vicino Vallecrosia, avrei realizzato il sogno di mio padre, e ne sarei felice».

 
Anna Tripodi risponde allo 0184/291000, la chiamerà qualcuno? Intanto fatelo voi, per visitare un luogo, anzi un tempio, della musica che non teme concorrenti. Infine siano di buon augurio i versi de Il treno dei folli, Modena City Ramblers:«Le rotaie accompagnano promesse/ sussurrate alla vita e alla follia/ e la locomotiva lancia un fischio a ricordare/ che il lungo inverno è ormai dimenticato/ La luna dei viaggiatori sorride piena ai finestrini/ la carovana insegue un nuovo giorno/ e sogna la prossima stazione». Ride Vittoria Mongardi mentre Erio gira un ragù al pesto indossando un bavero color zafferano.

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