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La campagna sul reddito di cura, portato alla ribalta dalla pandemia

La campagna sul reddito di cura, portato alla ribalta dalla pandemia

Covid-19 Per ogni ora di lavoro remunerato abbiamo bisogno di un’ora di lavoro per il benessere sociale, screditato dal mercato perché a svolgerlo sono le donne

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 9 maggio 2020

Alla stessa velocità del coronavirus si è andato diffondendo lo slogan “Io resto a casa”, contraddetto solo dalla sacrosanta invettiva degli spagnoli: “La romantizacion de la cuarantena es privilegio de clase!“.

Effetto collaterale del virus è stato la riscoperta che proteggere sé stessi significa proteggere la propria comunità e viceversa.

Questa maturazione, indotta da una convivenza forzata, ha riproposto all’attenzione una realtà resa invisibile dal capitale: l’immensa mole del lavoro riproduttivo e di cura indispensabile alla vita.
Il decreto Cura Italia ha rianimato la discussione sul reddito di base di emergenza, definito anche “reddito di quarantena”, una misura che ha l’obiettivo di trasformare in un contributo universale, anche se temporaneo, il reddito di cittadinanza in vigore in Italia. La campagna italiana è in linea con quella lanciata in diversi paesi dalla “Rete mondiale per il reddito di base”, che definisce il reddito di base universale come un trasferimento monetario incondizionato ed individuale volto ad assicurare le condizioni materiali di esistenza minime per condurre una vita degna.

Guadagna forza però anche un’altra proposta: il reddito di cura. Al di là di ogni giudizio sul reddito universale, il reddito di cura ha una sua specificità e diversità che deve esser tenuta in conto: è rivolta a remunerare un lavoro necessario – quello di cura e di riproduzione, appunto – che oggi non né riconosciuto né pagato.

Con la pandemia la cura di sé e della propria comunità ha assunto una centralità che prima non era avvertita. Si è fatta strada l’idea che la crescita economica non risolve tutti i problemi dell’umanità e che mettere al centro la cura ci permette di discutere finalmente di quale sia la vita che vale l’allegria di essere vissuta, durante e dopo la pandemia.

Le attività di cura sono l’insieme delle azioni giornaliere che svolgiamo per garantire il benessere del nostro intorno socio-ambientale. Un flusso invisibile di ore di lavoro non pagato che è ingente anche nelle società industrializzate e digitali. Per ogni ora di lavoro remunerato abbiamo bisogno di un’ora di lavoro non remunerato per mantenere un determinato livello di benessere sociale.

Eppure, questo lavoro non gode – come sappiamo – della stessa dignità attribuita al lavoro remunerato di mercato; anzi, è screditato. E questo accade perché a svolgerlo sono principalmente le donne. Sono loro che, con la loro fatica quotidiana, sussidiano in maniera invisibile l’economia di mercato. Ed è stato infatti il femminismo radicale e l’eco-femmnismo a mettere in evidenza l’importanza che i tempi di cura e di riproduzione hanno nel rendere possibile la vita.

Questa epidemia e il confinamento cui ci ha costretto, ha dato visibilità al lavoro di cura, il virus – si potrebbe dire – lo ha portato alla ribalta. Ha, in qualche modo, magnificato il tempo delle attività di cura. Anche perché ora i tempi delle attività di riproduzione della vita si sono enormemente dilatati: le file lunghissime che si creano per gli acquisti necessari; la ripetuta pulizia delle proprie mani; i lavaggi più frequenti degli indumenti che indossiamo, e così via.

Stare a casa ha riproposto all’attenzione di chi non ci pensa mai quanto pesante sia la cura dei propri figli, l’assistenza agli anziani, alle persone con diversa funzionalità, agli ammalati: un estenuante sforzo emozionale e fisico, tanto più pesante del solito in assenza di quel tanto di aiuto offerto normalmente dai servizi pubblici.

Restare a casa, obbligati dallo stato di emergenza per Covid19, ha quindi avuto questo duplice risultato: da un lato ha reso visibile l’importanza delle attività di cura, dall’altro ha mostrato che mettere la vita al centro, in un sistema di mercato che nel suo normale funzionamento non se ne cura, è per molti insostenibile.

E’ per questo che le ragioni della campagna internazionale per il reddito di cura, al di là delle sue posizioni non universaliste, devono essere ascoltate e dibattute. La campagna ha, infatti, il merito di rendere chiaro che non si chiede un reddito in quanto essere umano pur non avendo contribuito alla produzione del valore sociale, ma che si rivendica il pagamento di quella parte di valore sociale che si produce ma che è reso invisibile per consentirne l’indebita appropriazione.

*Università di Coimbra

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