La calligrafia è una fabbrica di immagini
Intervista Un incontro con Juan Calzadilla, artista venezuelano, classe 1931, che rappresenta il suo paese alla Biennale di Venezia
Intervista Un incontro con Juan Calzadilla, artista venezuelano, classe 1931, che rappresenta il suo paese alla Biennale di Venezia
«La cosa che rende alieno il Venezuela agli occhi del mondo è il suo tentativo, compiuto negli ultimi vent’anni, di iniettare auto-stima agli individui. È il fatto di aver messo al centro una cultura umanista che prima non esisteva». Juan Calzadilla (classe 1931, poeta, pittore e critico d’arte) parla del suo paese scosso da una crisi violentissima e prova ad alzare lo sguardo dalla cronaca. Un paese che definisce «sotto assedio» e, nelle sue parole, risuona più l’idea di un assedio antropologico.
Non è casuale allora che sia stato scelto lui, decano degli artisti contemporanei venezuelani, a rappresentare il paese latinoamericano alla Biennale d’arte in corso a Venezia. Quasi rispondendo all’urgenza di «trovare una saggezza che sembra perduta, ascoltare una voce profonda che viene da dentro il paese e che tutti possano ascoltare con rispetto», come sottolinea la curatrice, Morella Jurado, presidente dell’Istituto delle arti delle immagini e degli spazi di Caracas.
Alla voce poetica di Juan Calzadilla, una delle più illustri del Sudamerica, tocca insomma la sfida di spezzare il gioco piuttosto crudele di retoriche e contro-retoriche che sta divorando il paese. Lo aiuta il fatto di sentirsi «un anarchico», come sussurra lui sotto i baffi folti, un po’ curvo con i suoi 86 anni, gli occhi brillanti, il discorrere lento. O forse lo aiuta il fatto che le sue opere sono calligrafia e immagini, scrittura e visioni tenute insieme in modo plastico.
Impressionava vederlo, nei giorni di vernice, disegnare per ore e a raccontare storie a chiunque si avvicinasse, all’interno del Padiglione progettato sessantuno anni fa da Carlo Scarpa nei Giardini della Biennale e ora in via di restauro, sotto le cure dello storico dell’architettura Javier Cerisola.
Torniamo indietro nel tempo, a quando era ventenne: che ricordo ha del panorama culturale di allora?
Ho cominciato molto giovane come giornalista culturale. Ho iniziato con le parole, mai avrei pensato di fare arte, ora mi celebrano come artista visivo. Curioso, no? Comunque seguivo le mostre, i movimenti culturali, lavoravo come critico e saggista. Negli anni Cinquanta abbiamo vissuto un vero boom artistico, tanto che aprivano continuamente nuove gallerie.
Un’epoca di fermento, dunque. Guardavate all’Europa?
Certo, eravamo affamati di novità. Dall’Europa arrivavano nuove tendenze, linguaggi, pratiche. Presto ce ne siamo liberati, abbiamo rimasticato tutto con le nostre sensibilità e a quel punto eravamo così cosmopoliti che è stata l’Europa a guardare a noi. Pensate all’arte cinetica, all’apporto che hanno dato all’arte contemporanea internazionale personalità come Jesus Soto, Carlos Cruz-Diez, Alejandro Otero. Le loro opere hanno riconsegnato senso e bellezza allo spazio pubblico.
Lei usa la grafia come una fabbrica di immagini…
È stata soprattutto la scoperta del surrealismo, la scrittura automatica come flusso visivo, come pratica non razionale e uso della dimensione incosciente. E poi c’è una tradizione calligrafica in cui i canoni di proporzioni, mezzi ed espressione fanno incontrare scrittura e arte visiva, grafia e pittura. È stato un modo per scovare una chiave della contemporaneità.
Nel Padiglione ha deciso di non presentare i suoi disegni originali, ma solo la loro stampa digitale. Per quale motivo?
La tecnologia oggi ci permette di riprodurre un lavoro su un’altra scala, mantenendo e persino esaltando dettagli invisibili. A quel punto, l’opera diventa un’altra cosa, assume un’identità diversa. E questo mi permette di interrogare non solo il potere della tecnologia ma anche la natura e il rapporto tra originale, copia, spazio architettonico e dimensione pubblica. In questo caso, lo spazio è quello disegnato da Scarpa e dialogare con il suo lavoro prezioso, rigoroso e complesso significava porsi «altrove».
Questo spiega anche il titolo del suo progetto, «Forme che fuggono dalla cornice»…
Ho voluto sfuggire alla soggezione, è quello che più mi interessa. Non solo rompere con le due dimensioni cui ti costringe la cornice, non solo per non essere imprigionato in un linguaggio, ma per rompere con tutto quello che pacifica, spegne e incarcera l’espressione dell’essere umano.
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