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La caduta del vivere comune

La caduta del vivere comune

Pestilenze antiche e contemporanee Quante battaglie si combattono e perdono contro il nostro (qualsiasi) governo, per preservare quel che resta della nostra salute?

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 13 maggio 2018

L’altra sera, al Cotton Club di Roma, angolo Corso Trieste, ho assistito a uno spettacolo insolito per un night, incentrato sul Decamerone di Boccaccio. David Riondino cantava, insieme alla bella voce di Eleonora Cardellini, le sue incantevoli canzoni tratte dalle novelle del Decamerone, che venivano anche raccontate dal filologo Maurizio Fiorilla, piacevolmente commentate da Dario Pisano e illustrate sulle pareti con immagini cangianti.

Insomma, era uno spettacolo bellissimo, armonioso e gaudente. E poi David, come bis, ha letto un esilarante poema sulle ‘Buche della Raggi’, che consiglio vivamente Il Manifesto di pubblicare per intero.

Come si sa, il Decamerone comincia con la descrizione dell’epidemia di peste a Firenze del 1348 e dei suoi effetti sulla popolazione. Alcuni, per paura del contagio, si chiudono nelle loro case, usando con temperanza di «dilicatissimi cibi e ottimi vini» e ogni lussuria fuggendo.

Altri invece, «quasi non più viver dovesse», aveva «le sue cose messe in abbandono», e si dava al godere e sollazzare incurante. In tanta miseria, le autorità e le leggi erano cadute in disuso. Nessuno si prendeva cura del vicino e tutti si abbandonavano a vicenda e schifavano sia il visitare che il servire.

Avviene così che dieci giovani fiorentini (sette giovinette e tre giovincelli) decidono di lasciare la pestilenza e i suoi effetti politici e morali, e si rifugiano in una bellissima villa sulle colline della città, dove vivranno onestamente insieme raccontandosi a vicenda dieci novelle al giorno.

Mentre ascoltavo, non potevo fare a meno di pensare ai tempi nostri e a trovare somiglianze, più con la città appestata che con la villa salvata.

Non so se succede anche a voi di avere il pensiero occupato da questo o quello dei vostri amici che sta combattendo contro un morbo letale, o quell’amico di amici che ha appena lasciato la piazza, e di guardarvi intorno inquieti chiedendovi: da dove arriverà?

Direte che sono gli effetti dell’età e che voi girate per le strade tranquilli e sereni. E non vi preoccupate dell’acre odore dei tubi di scappamento, delle minacciose centrali che spandono silenziose i loro cerchi magnetici, delle cosce di pollo gonfiate da ormoni e antibiotici. Direte che queste cose ci minacciano da tanto tempo, e voi state ancora benissimo. Beati voi. Perché riuscite a chiudere gli occhi contro la malastagione, la cappa di piombo del cielo, i suoni striduli delle sirene, l’infinita prepotenza degli agenti patogeni che scorazzano per le strade senza curarsi di nessuno, proprio come facevano i fiorentini durante la pestilenza.

Io credo, infatti, che stiamo vivendo in una pestilenza anonima e solitaria.

Purtroppo non ho dati statistici, che forse smuoverebbero le vostre sopracciglia addormentate, ma solo i dati dei miei amici, e degli amici degli amici, e dei conoscenti dei conoscenti, del mio prossimo insomma, che ormai contiene qualche migliaio di persone, o milione. C’è un’epidemia solitaria, e si chiama cancro. E si chiama Alzheimer. E si chiama Sla o Sclerosi multipla. Per farvi fronte, ci dicono di non fumare. Istituzioni private ci chiedono contributi. Ma non mi risulta che un partito abbia messo al primo o anche al ventesimo posto del suo programma di governo le misure necessarie a ridurre la pestilenza, o un sindaco si sia preoccupato della salute dei suoi cittadini riducendo le esalazioni letali che accompagnano le sue uscite per strada.
La nostra vita si è allungata, ma a che serve morire a novant’anni se gli ultimi trenta passano da una cura all’altra, più esiziale della malattia stessa?

A questo andavano i miei pensieri, allontanandosi appena dai bei suoni e le belle parole che ascoltavo. Perché di questo parlavano, delle «cose messe in abbandono», dell’esistenza vissuta «quasi non più viver dovesse», dello spreco, dell’incuria, della rozza crudeltà che ne nasce, del declino del vivere comune e dell’accudimento (di questo parleranno lunedì 14, mattina, alla Galleria nazionale di arte moderna Letizia Paolozzi e Alessandra Bocchetti).

La caduta del viver comune, quello almeno lo avrete notato? Sono troppi ormai quelli che si ammalano lungamente e lungamente muoiono perché continuiamo ancora a lungo a preoccuparcene e prenderne cura.

Ma questo non dovrebbe essere il primo pensiero di chi vuole governare? Quanto tempo ci è voluto per decidersi a fare qualcosa (ma ancora non si sa cosa) dell’Ilva che ha ucciso di cancro migliaia di operai e bambini di operai? E quante battaglie si combattono e perdono contro il nostro (qualsiasi) governo, per preservare quel che resta della nostra salute?

Un’amica mi suggerisce di dire che mai come oggi si è avuto il modo di conoscere minuto per minuto i pericoli che ci minacciano e di avvertire la nostra (apparente) impotenza a rimediarli, e a questo rispondiamo, come i gaudenti fiorentini, con «dilicatissimi cibi e ottimi vini», squisitamente inquinati.

Intanto oggi mi chiedo quale amico o amica andrò a trovare. Da quale solitudine mi farò contagiare. O se, come i giovani fiorentini, mi chiuderò le orecchie con qualche bella storia.

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