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La buona agricoltura deve essere biologica ma anche sociale

La buona agricoltura deve essere biologica ma anche sociale

Alternative Stato dell’arte, progetti e sviluppi futuri delle realtà che in Italia hanno scelto il biologico e l’inclusione sociale come coordinate fondamentali

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 19 ottobre 2023

Ci sono ragazzi down che insegnano ai bambini come coltivare la terra; ex detenuti che trascorrono lunghi periodi in un’azienda agricola per vendere al pubblico i loro prodotti biologici; anziani che si ritrovano insieme ai loro coetanei e che si rimettono in gioco collaborando alle gestione di un’azienda agricola; bambini che si prendono cura di un orto e poi fanno merenda tutti insieme con quello che hanno coltivato; persone con disagio mentale che lavorano il formaggio, accudiscono animali, producono il miele, coltivano la terra o vendono al pubblico, a seconda della loro migliore propensione e capacità.

AL CENTRO DI TUTTO LA TERRA E GLI ANIMALI, curati entrambi con amore e rispetto. Attorno, una comunità che mescola i saperi e i disagi, le somiglianze e le diversità, che rispetta i tempi della natura e quelli di chi va più piano degli altri e che accoglie coloro che altrimenti sarebbero messi agli angoli da una società che da decenni si inginocchia davanti all’altare della produttività sfrenata, della competizione, della prestazione, della velocità e, naturalmente, del denaro.

LE REALTÀ CHE IN ITALIA SVOLGONO agricoltura sociale sono tante e intorno a loro c’è un humus in fermento, come la terra che coltivano, naturalmente con metodo biologico. Perché, come dice Angela Genova, ricercatrice presso il dipartimento di Economia, Società, Politica dell’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, «la buona agricoltura, deve essere biologica e sociale, cioè attenta sia alla terra sia alle relazioni tra le persone di una certa comunità».

PER SUGGELLARE QUESTO VIRTUOSO CONNUBIO tra biologico e sociale è nata, ormai 5 anni fa, BioAs, l’associazione nazionale di bioagricoltura sociale, che ha tra i suoi soci fondatori l’Aiab, la Rete Fattorie Sociali Sicilia, il Biodistretto dell’Agricoltura Sociale di Bergamo, l’Associazione Focus – Casa dei diritti Sociali di Roma e oltre 500 aziende agricole, associazioni, cooperative sociali operanti nel territorio nazionale e che lo scorso 23 settembre, festa europea del biologico, ha riunito i suoi soci e i suoi sostenitori nella fattoria sociale Ramarella vicino ad Arezzo, per parlare dello stato dell’arte, di progetti e sviluppi futuri.

UN GRANDE FUTURO DIETRO LE SPALLE è stato il titolo dell’iniziativa di tre giorni. «Scelto appositamente – dice Salvatore Cacciola, presidente di BioAs – per sintetizzare lo stato in cui versa l’agricoltura sociale in Italia: a fronte di una vivacità dei soggetti, in particolare di chi ha scelto il metodo biologico e l’inclusione sociale come coordinate fondamentali, assistiamo a una lentezza e, talvolta, colpevole disattenzione degli ultimi governi».

INSOMMA, MENTRE LA POLITICA, DAL CANTO SUO, fa passi lenti, indecisi e un po’ traballanti, il fermento vero arriva dal basso, cioè dalle persone, che si organizzano e tirano fuori idee, progetti e iniziative che incidono concretamente sulla realtà. Gli esempi sono tantissimi, diffusi su tutto il territorio nazionale e sono i «veri agenti del cambiamento», come sottolinea Stefano Frisoli, vicepresidente (BioAs) e direttore di Caritas Ticino ricordando alcune tra le numerose realtà italiane. Tra queste, il Biodistretto di agricoltura sociale di Bergamo, che raduna 40 enti, tra aziende, cooperative, istituzioni che lavorano per unire l’aspetto economico e lo sviluppo dell’agricoltura biologica all’impegno sociale. «Le due cose insieme – dice Marco Zanchi, presidente – creano un connubio perfetto perché permettono la cura del territorio e delle relazioni con una particolare attenzione alle categorie più fragili»; la Rete Fattorie sociali della Sicilia, un insieme di imprese agricole e biologiche che operano in sinergia con le cooperative sociali e che spesso hanno rappresentato uno strumento per restituire alle comunità locali i beni confiscati alla mafia, come nel caso della Fattoria Orti del Mediterraneo di Misterbianco; la Fattoria Ramarella di Arezzo, che fa parte della grande cooperativa Koiné, e che è diventata in pochi anni un punto di riferimento per il territorio aretino. Oltre a essere un’azienda dove si fa agricoltura e allevamento bio, offre residenza ad alcune persone con disagio mentale che vivono e lavorano in azienda e che intorno ad essa hanno ritrovato un centro esistenziale; le cooperative del Lazio, come Agricoltura nuova a Castel di Leva e Selva Grande a Monte Libretti, diventate negli anni un’istituzione nel mondo dell’agricoltura biologica e sociale.

«SIN DALLA NASCITA, ALLA FINE DEGLI ANNI ’70 – racconta Mauro Giardini, presidente Centro Educativo Accoglienza e Solidarietà – le due aziende hanno scelto la strada del biologico, anzi del biodinamico, introducendo elementi di cura nei terreni. Perché il nostro motto è prima la terra e poi il prodotto».

OGGI, IN QUESTI MERAVIGLIOSI TERRENI A VOLTE sottratti, come nel caso di Agricoltura Nuova, all’edilizia sfrenata che li avrebbe cementificati, oltre a curare la terra si curano le persone. «Con noi lavorano pazienti psichiatrici – racconta Giardini – assunti a tempo indeterminato e che qui trovano non solo una collocazione, un’accoglienza e una comunità con cui condividere la quotidianità, ma un impegno vero e un ruolo costruito sulle loro attitudini e che li fa essere parte attiva e fondamentale di un’azienda che genera economia. La grande diversificazione che ci caratterizza (22 ettari di orto, la produzione di uova, l’allevamento di maiali, mucche, pecore con relativa produzione del rinomato pecorino, la vendita al pubblico, la ristorazione, i mercati) ci ha consentito di accogliere persone con patologie e problemi diversi. Ognuno insomma fa quello per cui è più portato. A volte è una bella sfida capirlo, ma anche il vero punto di snodo. Tutto il resto viene da sé».

INOLTRE, PROPRIO IN UNA PROSPETTIVA SOCIALE l’azienda tutti i giorni prepara da mangiare per la collettività: un pasto completo costa 11 euro ed è aperto a tutti. «Chi vuole – dice Giardini – viene in azienda e mangia quello che mangiamo noi, insieme a noi». Naturalmente e rigorosamente biologico, anzi biodinamico. Queste realtà elencate, così come tante altre, si muovono tutte dentro le stesse logiche: «La possibilità – dice ancora Frisoli – di essere fattore di cambiamento per chi oggi è solo, fuori da qualsiasi azione di mercato e ai margini della società. Naturalmente è importante che coloro che muovono orizzontalmente sostenibilità sociale, ambientale ed economica agiscano in modo sinergico».

PER QUESTO LA POLITICA DOVREBBE CAMMINARE più spedita e con meno indecisione e non arrivare a pronunciarsi con normative già vecchie prima di nascere, come è stato in fondo per il biologico, che deve accontentarsi di «una inutile legge», come l’ha definita Vincenzo Vizioli, presidente di Firab, perché già vecchia per un settore che ormai è andato molto più avanti della legge che lo deve normare, la quale «peraltro è ancora mancante di decreti attuativi».

«LA RIFORMA DEL TERZO SETTORE, L’ATTUAZIONE delle misure sociali e sanitarie del Pnrr, le conseguenze sociali e ambientali del post pandemia – conclude Salvatore Cacciola – impongono un tagliando alla legge quadro sull’agricoltura sociale 141/2015. Le imprese agricole e le cooperative sociali agricole hanno bisogno di semplificazione delle procedure amministrative, di bandi del Piano strategico nazionale dedicati, di servizi utili allo sviluppo delle aziende, sia nel settore della ristorazione collettiva a marchio bio e sociale sia nei sistemi di distribuzione e di vendita. Noi di BioAs, insieme alle organizzazioni della rappresentanza del mondo agricolo, al sindacato, agli enti locali, al volontariato, ci batteremo perché la bioagricoltura sociale possa avere un futuro autentico collegato a una reale

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