Economia

La bufala del reddito minimo e la realtà dei poveri in Italia

La bufala del reddito minimo e la realtà dei poveri in Italia

Welfare Il governo Renzi sta promuovendo una nuova bufala. Dopo avere scambiato il «Jobs Act delle partite Iva» per uno «statuto del lavoro autonomo», ora è impegnato in un’altra campagna. Il Cdm avrebbe approvato addirittura il «reddito minimo». In realtà si tratta di un sussidio per un milione di poveri assoluti (su 4)

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 2 febbraio 2016

Il governo Renzi sta promuovendo una nuova bufala. Dopo avere scambiato il «Jobs Act delle partite Iva», destinato a 220 mila persone, per uno «statuto per i lavoratori autonomi» che in Italia sono 5,4 milioni, ora è impegnato in un’altra campagna. Il consiglio dei ministri di giovedì scorso avrebbe approvato addirittura il «reddito minimo». Così è stata intitolata ieri un’intervista, su un noto quotidiano, al ministro del lavoro Giuliano Poletti. In realtà, nel corpo piccolo delle risposte, Poletti è stato molto più realistico: il sussidio da 320 euro per 280 mila famiglie poverissime e numerose sotto i 3 mila euro di Isee e con figli minori (80 euro a testa, cifra simbolica della politica dei bonus renziani) non è un reddito minimo, ma il più modesto «sostegno di inclusione attiva» (Sia).

Questa misura, inventata dal governo Letta, è una misura assistenziale e per nulla universalistica di sostegno al reddito. La legge delega che permette il governo di estendere il «Sia», erogato mediante una «social card» di berlusconiana memoria, a condizione di vincolarlo a un nuovo obbligo, fin’ora assente in Italia: quello di «mandare i figli a scuola o accettare un’occupazione». Finalità, ispirate a un’idea autoritaria del «welfare-to-work», che potrebbero essere raggiunte in tutt’altra maniera, e certo non vincolate a meccanismi che rischiano di introdurre un controllo esterno delle famiglie. Tra l’altro, il provvedimento inserisce i privati nel contrasto alla dispersione scolastica. Ci sarebbe un fondo da 150 milioni stanziato da fondazioni bancarie.

La consueta ambivalenza, sia giuridica che linguistica, prodotta dal «buzz» mediatico ha lo scopo di confondere il «Sia» con il reddito minimo. L’articolo 34 della Carta di Nizza lo ha fissato al 60% del reddito mediano procapite. La cifra è più del doppio: si va dai 630 ai 780 euro. Importi non a caso stabiliti da due disegni di legge sul reddito minimo, ormai dimenticati: quello di Sel (frutto di una campagna dei movimenti di base pro-reddito) e quello del Movimento 5 Stelle, impropriamente definito «reddito di cittadinanza».

Per il governo i beneficiari del «Sia» sarebbero un milione di persone (di cui 550 mila minori). Un’altra dimostrazione della parzialità della misura. Per l’Istat, nel 2014 un milione 470 mila famiglie risultavano in condizione di povertà assoluta, per un totale di 4 milioni e 102 mila. Si parla di un reddito inferiore a 816 euro mensili in una metropoli del Nord e 548 in un comune del Sud. Su queste situazioni Poletti continua a ragionare con la «politica dei due tempi»: per ora si parte con 1 milione, in seguito si raggiungeranno gli altri tre. Anche nel «sociale» questo approccio è risultato fatale. Di anno in anno le priorità dei governi cambiano, mentre si procede con misure parziali, regolarmente sottofinanziate. In mancanza di un vero reddito minimo, gli altri 9 milioni di poveri «relativi» resteranno esclusi.

Un altro elemento dello «story-telling» governativo è legato ai fondi. Presentando la misura «welfare-to-work», si omette di citare i tagli dell’80 per cento al fondo delle politiche sociali avvenuto negli ultimi sette anni di crisi. L’esecutivo parla di 600 milioni per il 2016, 220 per l’Asdi: sussidio che si prende dopo avere percepito la Naspi. I fondi saliranno a un miliardo nel 2017. Si tratta di finanziamenti irrisori anche rispetto al ristretto campione selezionato.

Il criterio adottato dal «piano contro la povertà» è ispirato alla categorialità. Come ha più volte sostenuto la sociologa Chiara Saraceno, i sussidi al reddito per le famiglie bisognose sono usate per segmentare il corpo sociale in categorie e sotto-categorie (per età, status lavorativo o pensionistico, ad esempio).Il risultato è mantenere le persone nella «trappola della povertà». Questo è accompagnato dalla sistematica contrazione dei criteri di accesso ai sussidi. Insomma, tutto è lasciato al caso e all’arbitrio: se si appartiene a una categoria «fortunata» si percepisce il fondo. Altrimenti si resta soli. Così si riproduce l’esclusione sociale.

La deliberata volontà del governo Renzi di sottrarsi a una sistemazione generale del reddito minimo sta producendo altre conseguenze. Il «piano contro le povertà» non affronta l’enorme e confusissima legislazione prodotta negli ultimi due anni dalle regioni. Anzi, aggrava la situazione. Ci troviamo, ormai, in una situazione in cui la Valle d’Aosta ha un reddito strutturale che può essere erogato per cinque mesi anche alle partite Iva. In Puglia, invece, c’è un sussidio da 600 euro per i poveri, ma i requisiti escludono chi lavora e i precari. Tutto è occasionale e improvvisato in Italia. Tranne la povertà.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento