La bomba, le banche e l’inaccettabile corsa all’oro nucleare
Soldi e riarmo Finanziamenti al rinnovamento degli arsenali atomici e profitti generati dalla minaccia di una distruzione di massa. «Don’t Bank on the Bomb», un rapporto della ong Pax diffuso da Ican
Soldi e riarmo Finanziamenti al rinnovamento degli arsenali atomici e profitti generati dalla minaccia di una distruzione di massa. «Don’t Bank on the Bomb», un rapporto della ong Pax diffuso da Ican
Il punto chiave lo riassume Beatrice Fihn, direttrice esecutiva della Campagna Ican, premio Nobel per la Pace 2017: «La nuova e recente corsa agli armamenti nucleari ha avvicinato tutti a un possibile Armageddon, ma ha anche avviato una nuova corsa all’oro nucleare, per coloro che vogliono trarre profitto da ipotesi di distruzione di massa».
DI CHI STIAMO PARLANDO? Degli istituti finanziari che mettono i loro fondi a disposizione delle compagnie che sviluppano e producono armamenti nucleari. «Sono aziende che traggono profitto dall’ipotesi di omicidio di massa indiscriminato di civili. In questo modo le tensioni internazionali e la nostra insicurezza aumentano mentre loro fanno profitti sull’ipotesi di caos e distruzione», conclude lapidaria Fihn.
Di questo rilevante aspetto si occupa il rapporto Don’t Bank on the Bomb elaborato dalla ong olandese Pax e diffuso da Ican. L’edizione appena uscita registra due tendenze chiave. Da un lato aumentano sensibilmente i fondi a disposizione delle aziende produttrici di armi nucleari: tra il 2016 e il 2017, 81 miliardi di dollari in più. Dal gennaio 2014 sono 525 i miliardi di investimenti “nucleari” forniti da 329 tra banche, compagnie di assicurazione, fondi pensione e gestori patrimoniali di 24 paesi diversi; 110 miliardi provengono da sole tre società (BlackRock, Vanguard e Capital Group) e 253 miliardi dalle prime 10, tutte con sede negli Usa. Ne consegue che le 20 maggiori compagnie produttrici di armi nucleari, la maggior parte delle quali investe cospicue somme per la lobby a Washington, trarranno beneficio dalla crescente tensione internazionale. In Europa le istituzioni finanziarie più coinvolte sono Bnp Paribas, Crédit Agricole e Barclays, per oltre 24 miliardi di dollari in totale. Per l’Italia invece rimangono coinvolte (ma con significative evoluzioni che vedremo poi) Unicredit, IntesaSanpaolo e Jiulius Bsr per complessivi 2 miliardi di dollari circa.
LA NOTA POSITIVA riscontrata nel Rapporto deriva invece dall’adozione nel luglio 2017 del Trattato delle Nazioni unite sulla proibizione delle armi nucleari: da quel momento 30 società hanno deciso di fermare ogni investimento. «Il Trattato ha rilanciato decisamente il disinvestimento dalle armi nucleari: 10% in meno di istituti coinvolti e incremento nelle istituzioni finanziarie che lo proibiscono in qualsiasi forma. Questi attori finanziari devono quindi essere lodati per essersi posti dalla parte dell’umanità» sottolinea Susi Snyder di Pax Olanda, responsabile della stesura di Don’t bank on the Bomb.
In particolare due dei cinque principali fondi pensione al mondo hanno annunciato cambiamenti nelle loro relazioni con i produttori di armi nucleari. L’olandese Abp ha annunciato che a causa di «cambiamenti a livello internazionale, le armi nucleari non si adattano più alla nostra politica di investimento sostenibile e responsabile». Entro il prossimo anno renderà inaccessibili ai produttori il proprio capitale di circa 500 miliardi di dollari. 1.037 invece i miliardi che il Fondo pensionistico governativo norvegese vuole tenere lontani dalle stesse aziende.
QUESTE ESCLUSIONI evidenziano la crescente consapevolezza che nulla di ciò che ha a che fare con la produzione di armi nucleari possa essere considerato accettabile. Una scelta già fatta dalle 22 istituzioni finanziarie (in Australia, Danimarca, Italia, Paesi bassi, Norvegia, Svezia, Regno unito e Stati uniti) che hanno adottato una netta politica anti-nucleare, completa per portata e applicazione, e che sono inserite nella Hall of Fame del rapporto. Per l’Italia troviamo Banca Etica mentre invece IntesaSanpaolo e Unicredit fanno parte della lista di altre 41 istituzioni finanziarie che hanno fatto un passo verso l’esclusione dei produttori di armi nucleari dai loro investimenti, ma la cui politica non è onnicomprensiva nel prevenire ogni tipo di coinvolgimento finanziario. L’elemento significativo è che questa scelta, ancorché solo abbastanza parziale, sia stata fatta da banche in precedenza coinvolte nei finanziamenti, segno imporante di cambiamento.
PERCHÉ LE ARMI NUCLEARI rimangono le armi più distruttive mai progettate: pensate per devastare città, annientare eserciti e “vaporizzare” popolazioni. Non possono essere come altri sistemi d’arma: sono indiscriminate, inumane e immorali e ora anche vietate da una norma internazionale. Chi investe fondi in questo ambito aiuta a mantenere, testare e modernizzare tali armi. Sostenendo una pericolosa rigenerazione degli arsenali, con aumento di insicurezza e pericolo per i trattati di disarmo in essere.
In breve: niente soldi significherebbe nessuna produzione. Per questo il settore finanziario può convincere i nove Paesi nucleari (e quelli protetti dal loro “ombrello”) a cambiare le loro politiche. Un ambito di “pressione” a cui tutti i cittadini possono contribuire, perché è vicino alle loro vite (tutti hanno a che fare con una banca) e chiedere con forza che le istituzioni finanziarie scelgano di contribuire alla fine delle armi nucleari. Fermando quei finanziamenti che invece ora consentono alle armi nucleari di preparare la nostra, di fine.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento