Cultura

La blasfemia non esiste nel Corano

La blasfemia non esiste nel CoranoIl viaggio notturno del profeta Maometto, Persia, Safavid, Isfahan, XVII secolo

Storia dell'Islam Perché i musulmani vivono con grande disagio lo sberleffo del Profeta. Anche se nel testo sacro non c'è nessun accenno alla bestemmia, né punizioni fisiche per chi trasgredisce. Gli estremisti che arrivano ad uccidere non trovano alcun appiglio dottrinale

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 16 gennaio 2015

Afferma il Corano che «Voi (si riferisce agli uomini tutti) avete nel Messaggero di Dio (cioè Muhammad/Maometto) un esempio buono per chiunque speri in Dio e nell’ultimo giorno e molto menzioni Iddio» (33,21).
Dunque, Muhammad costituisce il punto di riferimento per l’azione del credente, a tal punto che la sua imitazione risulta indispensabile per conseguire la salvezza eterna.

Il grande teologo medievale al-Ghazali (m. 1111) diceva che l’imitazione del Profeta purifica l’esteriorità del credente per renderlo idoneo alla purificazione interiore dell’anima. Così bisogna fare come il Profeta anche nei gesti quotidiani della vita, come lo scendere dal letto o il tagliarsi le unghie o il non mangiare cibi che lui non consumava. E non bisogna sorridere di ciò, ammoniva al-Ghazali, perché nessuno può pretendere di essere puro dentro se non osserva un comportamento esteriore adeguato. E siccome Muhammad è stato l’uomo perfetto, si capisce quanta importanza abbia la sua sunna (ovvero il suo modo di essere e di pensare).
La venerazione per il Profeta ha raggiunto nell’Islam punti estremi. Alcuni mistici lo hanno descritto come il compasso che equilibra l’ordinamento cosmico. Vi è una tradizione mistico-teologica secondo la quale dalla pre-eternità esiste una sostanza muhammadica che costituisce in certo senso il modello della profezia, cui tutti gli altri profeti riconosciuti dalla tradizione islamica (come Adamo, Noè, Abramo, Mosè, Gesù…) si sono conformati. È importante ricordare che queste esagerazioni, che arrivano quasi alla divinizzazione di Muhammad, non sono coraniche, ma sono state elaborate nei secoli dalla pietà musulmana. Il Corano, da parte sua, dice più volte che Muhammad è solo un uomo con capacità e abilità ordinarie (per esempio 7, 188 e molti altri luoghi ancora), sebbene abbia avuto il dono straordinario di ricevere in modo diretto la rivelazione.

I musulmani, sulla base di un oscuro accenno coranico (capitolo 7, 157-158), credono che Muhammad fosse analfabeta e ciò per dimostrare la veridicità della sua missione profetica: com’è possibile, infatti, che un uomo analfabeta abbia potuto ricevere e recitare un Libro così santo e perfetto come il Corano se non per miracolo di Dio? La stessa festa del compleanno del Profeta (mawlid), oggi molto sentita dai musulmani, fu istituita tardi, su imitazione del natale cristiano, e non esisteva nei primi tempi dell’Islam.
Quanto detto spiega come mai molti musulmani si possano sentire profondamente feriti e offesi da vignette satiriche che dileggiano il loro Profeta. Da una parte, tengo a precisare che a mio avviso il dileggio dei personaggi sacri delle altre religioni non rappresenta in alcun modo “libertà di pensiero”. Dall’altra, un musulmano non si permetterebbe mai di dileggiare Gesù Cristo, proprio perché lo ritiene un grandissimo profeta inserito nella storia della rivelazione. La questione è ulteriormente complicata dal divieto di raffigurare la persona di Muhammad.
È ben noto che l’Islam, come del resto l’Ebraismo, proibisce di farsi rappresentazioni di Dio: disegnare Dio come ha fatto Michelangelo nella Cappella Sistina è, per un ebreo o un musulmano, un’empietà blasfema. Nell’Ebraismo si arriva al punto di vietare la pronuncia del nome stesso di Dio (il tetragramma YHWH) sostituendolo con altre espressioni lecite.
Per analogia, la regola è che neppure Muhammad possa essere raffigurato.

Questo non vuol dire che nell’Islam non ci sia stata una tradizione iconica che ha voluto rappresentare il Profeta. Ma caratteristicamente si tratta di una tradizione tarda e non araba (oserei dire non semitica, tenendo conto che arabi ed ebrei sono entrambi semiti).
Sono stati, infatti, prima i persiani e poi i turchi ad ammettere, soprattutto nelle loro miniature, la possibilità di raffigurare il corpo di Muhammad. Solo il corpo, però, non la testa, il volto, che viene sostituito da una fiamma. Oggidì, in alcuni paesi musulmani come l’Iran, circolano «immaginette» che riproducono un presunto, bellissimo, volto di un Muhammad giovane e sorridente. Naturalmente, nessuna raffigurazione del genere è ammessa in moschea, le cui pareti possono ospitare solo i grafemi artistici della calligrafia araba, e questo, ovviamente, non solo per gli arabi, ma anche per i persiani e i turchi.
Questa è anche la ragione per cui la cinematografia musulmana, pur assai prolifica, dall’Egitto all’Iran, non abbia mai girato un film sul Profeta, laddove moltissime pellicole sono state girate in Occidente con Gesù, regolarmente mostrato, come protagonista. Un’unica volta un regista siriano ha osato raccontare al cinema la vita di Muhammad (il film si intitola Il messaggio), ma, a parte il fatto che la pellicola sostanzialmente non ha circolato nei paesi musulmani ed è stata vista da pochissime persone per una sorta di naturale ritrosia, il regista ha dovuto escogitare trucchi diversi per non mostrare in alcun modo la persona del Profeta.

Ancor di più, si comprende perché la sensibilità musulmana riguardo alle vignette satiriche sia stata provocata. L’irrisione del Profeta è una blasfemia che offende sanguinosamente la coscienza del credente. Ciò, è ovvio, non giustifica né il terrorismo né l’omicidio, ma può costituire un motivo di profonda rabbia per un estremista, già convinto, a ragione o a torto, che l’Occidente lo colonizzi e lo sfrutti. Peraltro, è difficile trovare giustificazione per la punizione della blasfemia nei testi sacri. Innanzitutto, bisogna ricordare che la bestemmia è inesistente nell’Islam; è un non-problema. Nessuno, nemmeno un ateo convinto, si permetterebbe di bestemmiare il nome di Dio o di Muhammad.

La pronuncia continua, ritmata, del nome di Dio (Allah) è, anzi, un mezzo assai praticato per entrare in comunicazione spirituale con Lui. Si spiega così perché il Corano (almeno per quanto io lo conosco – ma il Corano è un oceano senza limiti, come dice al-Ghazali) non si occupa neppure di denunciare e sanzionare la blasfemia. Piuttosto, il Corano si occupa più di una volta di denunciare l’apostasia, l’abbandono della religione. Ma anche in questo caso, non prevede alcuna punizione «fisica».

Sarà Dio nell’aldilà, al momento del giudizio, a sanzionare l’apostata con la punizione che vorrà. Alcuni dottori conservatori, già nel Medioevo, hanno invece deciso che l’apostasia sia passibile di pena di morte: ma appunto, non vi è alcuna base coranica per giustificare una simile prescrizione. E lo stesso vale per la blasfemia.

L’estremista che pretenderebbe di punire con la morte l’autore blasfemo di una vignetta satirica non troverebbe conforto dottrinale nel Corano.

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