Se le opere delle archistar sono la rappresentazione del capitalismo contemporaneo e il container è elemento fondamentale per lo spostamento globale delle merci, il cemento armato è il materiale costruttivo che determina conseguenze ecologiche e sanitarie. Il ricorso al cemento si rivela nocivo per la salute del pianeta; si pensi alla ricaduta ambientale dell’estrazione massiccia di sabbia e ghiaia, all’impoverimento dei terreni, al consumo di energia e alle emissioni di anidride carbonica determinata dalla sua produzione, oltre a richiedere l’impiego di quantità rilevanti di risorse idriche e l’utilizzo della siderurgia per il ferro necessario all’«armatura». Se il container ha reso possibile la ristrutturazione dell’economia mondiale con la delocalizzazione, se le costruzioni delle archistar sono spesso «architettura pubblicitaria», creazione di spazi in cui il capitalismo può condensare potere economico, tecno-scientifico, politico e culturale, diventando un aggregato verticale di potere, Anselme Jappe, in Cemento. Arma di costruzione di massa (Elèuthera, pp. 196, euro 17, traduzione di Carlo Milani), dimostra come il cemento armato sia il materiale in grado di rappresentare la concretizzazione della logica capitalista.

PRODOTTO IN QUANTITÀ smisurate, ha conquistato il pianeta, rimpiazzando le architetture locali e cancellando l’artigianato, annullando ogni diversità costruttiva. Al di là della monotonia intrinseca di questo materiale, a preoccupare è la sua obsolescenza programmata, che ha definitivamente trasformato le costruzioni in merce. Con conseguenze tragiche come nel caso del crollo del ponte Morandi a Genova – al di là di colpevoli incurie e di ricorsi a materiali di scarsa qualità.
L’autore non propone alternative, che sono possibili solo mettendo in discussione il capitalismo stesso, ma concentra i suoi ragionamenti su di un materiale e il suo legame con il liberismo, ricostruendone la storia, analizzando le proposte dei suoi sostenitori e le riserve dei pochi detrattori. Jappe, che si è laureato con Mario Perniola ed è studioso di Guy Debord, inserisce la sua critica nel concetto di psicogeografia individuato dai situazionisti: lo studio degli effetti dell’urbanistica e dell’architettura sul comportamento affettivo degli individui e sull’«addomesticamento» sociale. Quella dei situazionisti è stata una critica radicale all’urbanistica che non risparmiò il funzionalismo e il razionalismo, proponendo una modernità alternativa non subordinata all’ordine esistente, ma al gioco e al nomadismo, al comportamento sperimentale, partecipativo e creativo.

L’EDITRICE ELÈUTHERA merita un elogio non solo per aver pubblicato il libro, ma anche perché lo inserisce nell’ambito di un’attenzione editoriale per autori che continuano a riflettere su proposte alternative di urbanistica, architettura ed ecologia, con i libri di Yona Friedman, Franco Bun uga, Giancarlo De Carlo, Leonardo Lippolis, Gabriele Mina, Adriano Paolella, Colin Ward (su questi temi, il classico I limiti della città di Murray Bookchin – autore importante per l’editrice milanese – meriterebbe di essere ripubblicato, visto che l’edizione Feltrinelli è del 1974). Jappe termina il libro con un capitolo dedicato a William Morris, teorico fondamentale del socialismo libertario e importante per gli autori sopra nominati, che già nell’800, con il movimento Arts and Crafts, criticava il sistema fabbrica, la produzione seriale, la parcellizzazione del lavoro che non permette l’apporto creativo individuale, l’unione tra etica ed estetica, il circuito virtuoso di relazioni sociali e rapporti di produzione tra produttori e fruitori, proprio il contrario della logica legata all’«arma di costruzione di massa».