La Biennale di Steve Reich
Contemporanea/Oggi e domani l’anteprima del festival in programma dal 3 al 12 ottobre Il compositore statunitense verrà premiato con il Leone d’oro alla carriera e a lui sono dedicate le prime due giornate della rassegna veneziana, giunta alla 58ma edizione
Contemporanea/Oggi e domani l’anteprima del festival in programma dal 3 al 12 ottobre Il compositore statunitense verrà premiato con il Leone d’oro alla carriera e a lui sono dedicate le prime due giornate della rassegna veneziana, giunta alla 58ma edizione
Che cosa succede alla Biennale Musica? Un terremoto? Una rivoluzione culturale? Per la prima volta da quando sono stati re-introdotti i Leoni d’oro alla carriera (nei due ultimi anni della gestione Battistelli c’erano anche quelli per le opere in concorso) viene premiato un compositore americano. L’eurocentrismo, allargato magari all’est ex sovietico, come nel caso della consacrazione, l’anno scorso, della russa Sofija Gubajdulina (peraltro residente in Germania), viene finalmente intaccato, messo in discussione, chissà. Era un chiodo fisso ai festival veneziani di musica contemporanea, a parte l’edizione «fuori canone» del 2003, quella multidisciplinare e fin troppo made in Usa diretta da Uri Caine. Adesso il direttore artistico in carica Ivan Fedele rompe il tabù.
Ma la rottura con una tradizione dura a morire è doppia. Perché il prescelto per l’anno 2014 è Steve Reich. Non un compositore appartenente in toto al filone della musica «dotta», sperimentale fin che si vuole, anche estrema, ma pensata secondo i dettami di una ortodossia di cui si sta perdendo persino la memoria. Anche questo era un pallino della rassegna veneziana, restia ad arrendersi al fatto che gli incroci tra scrittura accademica e «altre scritture» o «altre modalità sonore», l’elettronica d’uso, la musica di strada, il digitale a tutto campo, gli echi dell’universo mediatico e spettacolare, sono ormai diffusissimi.
Steve Reich, quindi. Un compositore minimalista che conoscono e amano anche i consumatori di rock e affini. Minimalista? Non ditelo a lui, però. Non vuole sentire questa parola. Come se fosse limitativa. E del resto tutte le definizioni, tutte le iscrizioni forzate a una scuola, a uno stile comune a un gruppo, sono limitative. Anche se utili (e comode) per individuare certi procedimenti e certe atmosfere. Si tratta di musica, quella di Reich come quella dei vari Terry Riley, La Monte Young, Philip Glass, John Adams, basata su pochi elementi base ridotti all’osso? Sì, e allora che male c’è a chiamarla minimalista? In ogni caso un musicologo italiano insigne, Enzo Restagno, dà ragione a Reich, anzi, gliela dava già nel 1994 (Aa.Vv., Reich, Edt): «…perché la sua musica ha saputo negli anni far propri tali e tanti contenuti da trascendere la formula che valse a caratterizzare i suoi esordi…».
Bisogna intendersi sui «contenuti» acquisiti. In sostanza. Reich si allontana man mano dal criterio della ripetizione con «sfasature» (che rivelano echi, risonanze, alterità) di un nucleo ritmico-melodico minimo ed estende questo nucleo a una discorsività melodica e armonica più ampia ricorrendo alla modulazione classica e quindi all’armonia classica, sia pure assai mascherata o tenuta in sospeso o dribblata all’infinito. La ripetizione di frasi, che possono essere numerose e sovrapposte, rimane pur sempre un fattore chiave, un marchio di fabbrica condiviso con altri compositori minimalisti, anch’essi, come il popolare Glass, intenti ad ampliare le melodie dei nuclei di base e a rendere più dolce, più colloquiale e nello stesso tempo più complesso un lessico nato incantatorio-ossessivo.
Si passa così, per Reich, dai lavori di «musica come processo graduale» (anche titolo di un saggio del compositore del 1968), insomma i lavori ripetitivi tipici della prima fase, lavori per sole voci di strada registrate come It’s Gonna Rain (1965) e Come Out (1966), per strumenti soli o della stessa famiglia come Piano Phase (1967), Violin Phase (1967), Drumming (1971, percussioni più voci assimilate totalmente agli strumenti), per battito delle mani come Clapping Music (1972) ai lavori di ampia articolazione, a cominciare dall’aspetto timbrico, se vogliamo di «revisione» dei propri criteri compositivi, come Music for 18 Musicians (1976), il momento di passaggio e una delle meraviglie assolute della musica del Novecento, Music for a Large Ensemble (1978), Variations for Winds, Strings and Keyboards (1980), Tehillim (1981) e via via le opere più recenti come Different Trains (1988), The Cave (1993, teatro musicale), City Life (1995), Three Tales (1998-2002, con i video di Beryl Korot), Radio Rewrite (2012).
Steve Reich dal radicalismo alla moderazione? Il suo bisogno di ampiezza e complessità delle trame e delle strutture nasconde un bisogno di conciliazione con codici d’ascolto più consueti? A volte si può accarezzare questa ipotesi. A volte. Quando si è presi da un po’ di nostalgia per quella matematica implacabile leggera indagine sulla magia dell’identico che moltiplica se stesso, sul conflitto e sul fascino della metropoli catturati da un pulsare spoglio e ricchissimo di suoni su una piattaforma liscia scorrevole. Ma la nostalgia non è tutto. Nemmeno il culto dell’ultima svolta di poetica, se è per questo.
A Venezia abbiamo una ulteriore possibilità di riflessione sulla grandezza, in ogni caso indubitabile, di Steve Reich. Possibilità modesta, come vedremo. La Biennale Musica prevede in suo nome un antefatto, un preludio. Oggi, 20 settembre, e domani, 21. Durante la prima delle due «giornate Reich» non si ascoltano cose sue. L’Eco Ensemble Berkeley diretto da David Milnes presenta lavori in prima italiana di Franck Bedrossian (un esponente della cosiddetta «scuola della saturazione» francese, già ascoltato con molto interesse alla Bm del 2012), di John MacCallum e di Edmund Campion, gli ultimi due con sicure parentele con le esperienze minimaliste. Nella seconda giornata, al pomeriggio, ancora l’Ensemble californiano suona lavori di John Adams e Philippe Leroux in prima esecuzione italiana e di Aaron Einbond in prima assoluta, tutti e tre post-minimalisti, diciamo così, e infine Nagoya Marimbas del maestro e premiato Reich, breve gradevolissimo pezzo del 1995, un po’ «prima maniera raddolcita».
La sera della seconda giornata è quella dedicata alla solenne consegna del Leone d’oro a Reich e a un concerto tutto di sue musiche. In una occasione del genere ci si aspettava che la Biennale facesse le cose in grande. Una novità commissionata al settantottenne compositore, per esempio, da scrivere apposta per un festival di antico fasto arrivato alla sua edizione n. 58. Una piccola monografia dove confrontare il Reich «eversivo» degli inizi e il Reich «istituzionale» di oggi, in alternativa. Invece no. Solo City Life e Triple Quartet (1999) affidati all’Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari diretta da Jonathan Stockhammer (compagine che magari si può rivelare strepitosa).
Il festival inizia di nuovo il 3 ottobre e continua fino al 12. Questo corposo secondo tempo – in realtà il festival vero e proprio – ha un titolo, Limes, e una specie di filo conduttore: le musiche con richiami etnici assorbite dalla sonorità contemporanea. In una occasione, come nel concerto finale del coro polifonico albanese Violinat e Lapardhase, le musiche tradizionali sono proposte in originale. Ma con l’Orquesta Sinfonica de Euskadi e col duo Oreka TX (9-10 ottobre) la cultura basca è echeggiata in composizioni e performance recentissime di stampo «colto» o «fusion», mentre la tradizione musicale albanese è solo utilizzata in parte da Admir Shkurtaj per la nuovissima, inedita, opera da camera Kater I Rades (12), che ha per soggetto l’affondamento, il 28 marzo 1997, di una nave carica di profughi albanesi da parte di una motovedetta italiana (81 morti, 27 dispersi, il premier italiano era allora Romano Prodi, che giustificò a posteriori la criminale operazione).
Sempre al filone di creazioni musicali in qualche modo ispirate a tradizioni etniche si può attribuire il concerto dell’israeliano Meitar Ensemble (6), e anche qui le opere in programma – tre su cinque sono prime assolute – hanno un riferimento assai libero alla cultura ebraica. Più vicino a un vero e proprio caleidoscopio etnico, in questo caso siriano, iraniano, turco, armeno, eppure proiettato in direzioni imprevedibili grazie all’improvvisazione è il set intitolato Compasso da navegar della Galata Electroacoustic Orchestra diretta da Roberto Doati e Tolga Tüzun (5).
Ma il festival ha altre carte da giocare. Oltre alle venti novità assolute (e questo è da sempre il punto debole della Bm…), a star del firmamento autoriale contemporaneo come Beat Furrer, presente il 7 ottobre nel concerto del duo Matteo Cesari (flauto)-Dario Calderone (contrabbasso), a compositori quasi da scoprire ma di enorme e comprovato talento come Yannis Kyriakides, che porta un nuovo lavoro per contrabbasso in quello stesso concerto, c’è in cartellone almeno un solista da urlo. Si chiama Francesco Prode, pianista di rara freschezza, di rara sapienza tecnica, di raro acume interpretativo, di rara rilassatezza. Suona l’11 alle ore 12 a Ca’ Giustinian in tandem col percussionista Dario Savron. Brani di Philippe Hurel, Luigi Nono, Fabio Nieder, Georges Aperghis. Da non perdere.
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