La «bianchezza» e le sue maschere
TEMPI PRESENTI Dallas, Baton Rouge e Milwaukee. Contraddizioni e ambivalenze del discorso «post-razziale» riportano l’attenzione sul dominio della whiteness e i suoi falsi idoli. Un’analisi politico-culturale sull’«era Obama» che si sta per concludere
TEMPI PRESENTI Dallas, Baton Rouge e Milwaukee. Contraddizioni e ambivalenze del discorso «post-razziale» riportano l’attenzione sul dominio della whiteness e i suoi falsi idoli. Un’analisi politico-culturale sull’«era Obama» che si sta per concludere
Dallas, Baton Rouge e ora Milwaukee stanno dando il colpo di grazia all’era Obama. L’era del primo presidente nero della storia di uno degli stati più razzisti la storia abbia mai prodotto sta finendo nell’unico modo in cui poteva finire. Difficile trovare un altro esempio nella storia recente – a parte forse quello di J. F. Kennedy – in cui i discorsi attraverso cui ogni potere tende a legittimarsi siano cosi distanti dalla sua effettiva costituzione materiale. Accolta nel 2008 come espressione di un bisogno collettivo di discontinuità rispetto alle amministrazioni teo-con, anche da buona parte della sinistra radicale globale, l’era Obama ha mostrato tutt’altro posizionamento rispetto a tale attesa.
Continuità di comando
Più che incoraggiare politiche anti-cicliche di fronte alla crisi del 2007 – la cui logica più perversamente predatoria ebbe come oggetto proprio i neri poveri degli Stati Uniti, ulteriormente espropriati dai crediti subprime – l’era Obama è stata caratterizzata dalla promozione di misure finalizzate a rafforzare la struttura neoliberale dell’attuale comando finanziario globale. Nell’era Obama, quello che Peter Gowan ha chiamato nel suo The Global Gamble (1999) il complesso FMI-Wall Street-Signoraggio del dollaro – ovvero, l’architrave materiale del neoliberalismo come dispositivo globale di governo – si è ripreso quel potere rimasto traballante dopo la crisi del 2007. L’era Obama ha affrontato la crisi terminale del capitalismo «estrattivo» neoliberale cercando di allentare le ultime briglie capaci di contenere il mostro. Anche gli ultimi episodi della saga parlano chiaro: si pensi alla promozione attiva da parte dello stesso Obama del TTIP, un trattato che abbatterebbe le ultime barriere a una consegna totale del mondo alla sovranità delle multinazionali e della finanza, ma anche al suo esplicito appoggio al Remain nel referendum britannico, ovvero a una scelta proclamata (nel suo caso, come in quello della Troika UE) in nome della continuità dell’attuale comando finanziario europeo incentrato sul ruolo strategico della City nel modo di accumulazione neoliberale globale.
Nemmeno dal punto di vista geopolitico vi è stata alcuna rottura con le amministrazioni conservatrici. Il «mitologico» disimpegno degli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan si è rovesciato nel suo opposto, nella decisione di mantenere i marines in queste zone di guerra a «tempo indeterminato». I discorsi per un «multilateralismo pacifico» si sono accompagnati a interventi diretti e indiretti in favore di nuove «guerre permanenti» e nuove balcanizzazioni di stati non del tutto “allineati” all’ordine internazionale, come nel caso di Libia, Ucraina e Siria. Anche il ri-bombardamento della Libia in questi giorni va letto in quest’ottica. Così come lo strangolamento dei cosiddetti BRICS, eseguito attraverso un deliberato accordo con i sauditi in favore di un forte aumento della produzione di petrolio, il cui unico obiettivo era quello di far crollare il prezzo del greggio. Si tratta di una strategia che ha messo in difficoltà non solo paesi come Russia e (indirettamente) Cina (tradizionali stati canaglia), ma anche Bolivia, Ecuador e Venezuela.
È in questo contesto che occorre collocare l’appoggio di Obama – con visita ufficiale a Marzo – al neoliberalismo spietato di Macri in Argentina e alla svolta reazionaria e conservatrice in Brasile dopo l’impeachment del pur controverso governo di Dilma Roussef. Al di là del giudizio che si possa avere sui diversi governi «post-neoliberali» dell’America Latina, non si può negare che l’era Obama abbia cospirato contro la «svolta a sinistra» di questa parte del mondo: basti qui ricordare l’appoggio esplicito al golpe contro Zelaya in Honduras nel 2008 e contro Lugo nel 2012 in Paraguay.
Condizioni esiziali
Lo stesso tipo di perverso «blackwashing» si può osservare rispetto a ciò che possiamo chiamare con Angela Davis il complesso «militare-penitenziario-razziale» interno. I discorsi su una presunta condizione finalmente «post-razziale», di una democrazia finalmente libera dalle gerarchie della «linea del colore», hanno funzionato come un sinistro contrappunto della marcia inarrestabile dello «stato penale» neoliberale. La celebrazione di una «condizione post-razziale» – sancita dalla messa a discorso dell’elezione di un presidente «nero» nel paese delle piantagioni, del Ku Klux Klan, dei linciaggi, dello stupro sistematico delle nere schiave, delle leggi Jim Crow – è stata la colonna sonora di una singolare «tecnologia razzista di governo» emersa insieme al processo di ristrutturazione neoliberale e incentrata sulla repressione «militarizzata» dei territori, sull’incarcerazione e sull’abbandono di massa, sul ricorso al racial profiling e all’omicidio di stato tra i neri poveri ed esclusi.
Non lasci ingannare il significato letterale della parola «post-razziale». Ciò che mostrano i fatti, la continua produzione istituzionale dei neri poveri come «gruppo soggetto a morte prematura», per dirla con Ruth Gilmore, è che il discorso «post-razziale» dell’era Obama non è che la condensazione feticistica di una nuova e più perversa forma di razzismo. È quanto afferma, per esempio, David T. Goldberg, in Are we all Post-racial yet?.
Secondo Goldberg, la specificità del discorso «post-razziale» non sta tanto nel rendere innominabile la «razza» o nel renderla «invisibile», quanto nel negare in modo ossessivo la dimensione strutturale-materiale del razzismo. Il discorso «post-razziale» nega il razzismo come «costituzione materiale», come dispositivo (anche simbolico) alla base della gerarchizzazione della cittadinanza. In termini marxisti, si può dire che il discorso «post-razziale», costruendo le «razze» come fenomeni scissi dalle condizioni materiali della loro produzione, operi attraverso una sorta di feticizzazione della razza e del razzismo. E’ in questo modo che, paradossalmente, il discorso «post-razziale» finisce per ontologizzare – essenzializzare – quelle stesse «razze» di cui nega l’esistenza; e così, fenomeni sociali che sono chiaramente il prodotto del razzismo come dispositivo strutturale di produzione della società – l’alta percentuale di neri tra poveri, esclusi, disoccupati, popolazione carceraria, ecc. – finiscono per apparire come il prodotto di un modo di vita «sbagliato», di una certa patologia «culturale», oppure di un semplice deficit di «educazione» o di «intelligenza» personale. Il discorso «post-razziale», per dirla nei termini di Fanon, ha riportato razza e razzismo dal lato dell’ontogenesi anziché della sociogenesi.
Negando la dimensione strutturale del razzismo, dunque, il discorso «post-razziale» funziona come dispositivo di naturalizzazione delle disuguaglianze. Dall’interno di questo discorso, i processi di razzializzazione, intesi come la distribuzione di gerarchie e privilegi a seconda dell’appartenenza a certi gruppi e classi, non appaiono più come un prodotto attivo dell’interazione tra stato (istituzioni) e capitale, bensì come una semplice e neutra «amalgama» sociale originata dal libero gioco tra i soggetti. È sintomatico che nei casi di Dallas e di Baton Rouge, sia ora a Milwaukee, si sia cominciato a parlare di «odio razziale» o di «guerra razziale» solo quando i neri hanno sparato sui poliziotti o dato luogo a diverse forme di riot; mobilitate solo in riferimento all’agire dei neri, «odio razziale» o «guerra razziale» sono espressioni che finiscono per porre «bianchi» e «neri» sullo stesso livello, come se i rapporti di potere fossero qui «equivalenti»; e come se il conflitto (razziale) fosse generato da una sorta di «naturale» e reciproca intolleranza: più da ciò che un certo senso comune intende per «xenofobia» (qualcosa di inerente alla stessa condizione umana) che non dal razzismo come sistema storico di dominio dei bianchi sui neri. Questa narrazione ci mostra inoltre che nel discorso «post-razziale» è spesso il «nero» (come il «latino», o il «musulmano») a essere il portatore dell’elemento «razziale», e ultimamente, anche del razzismo, se, come ricorda Goldberg, uno dei tratti salienti della condizione «post-razziale» è che a essere accusati di «razzismo» sono spesso coloro che lo hanno storicamente subito. È così che il discorso «post-razziale» mira a rendere «invisibile» la whiteness attraverso l’iper-visibilizzazione degli «altri» in chiave «razziale».
Si desume da qui un altro degli effetti più perversi del discorso “post-razziale: negando il razzismo come dispositivo materiale ancora all’opera nell’esercizio del potere nella società americana, esso slega il passato dal presente, lasciando i soggetti «liberi» di vendere sul mercato la propria «differenza». Il discorso «post-razziale» lavora nell’oblio della storia, di quelle stesse condizioni storiche – il capitalismo coloniale, la schiavitù – che hanno consentito la formazione delle gerarchie razziali. Ed è questo oblio a consentire, in modo del tutto perverso, una proliferazione «libera» e «senza colpe» di discorsi e pratiche razziste, poiché, come appare ovvio, non vengono riconosciute come tali. Inoltre, rimuovendo il razzismo dal discorso pubblico senza rimuovere le strutture materiali su cui si è storicamente fondata la supremazia della whiteness, il discorso «post-razziale» finisce per iscrivere unicamente sulla pelle le verità socialmente prodotte di ciò che Cedric Robinson ha chiamato «capitalismo razziale». In sintesi: neutralizzando la dimensione materiale della storia e privatizzando le questioni legate alla razza e al razzismo, il discorso «post-razziale» è divenuto un elemento necessario della ragione neoliberale. Di più: la frattura radicale di razza e di classe provocata nel corpo sociale dallo sviluppo del neoliberalismo, ha trovato nel discorso «post-razziale» uno dei suoi elementi centrali di ricomposizione ideologica.
Miti in vendita
L’era Obama, dunque, sta riproponendo in un modo infinitamente più perverso la celebre ingiunzione di Fanon: Pelle nera. Potere bianco. Qualcuno sostiene però che la recrudescenza razzista che sta caratterizzando la fine dell’era Obama è parte della risposta del potere bianco all’elezione di un presidente nero, un tentativo di imprimere un sinistro e definitivo marchio storico su questo singolare periodo della storia degli USA. Il dato di fatto non cambia: Dallas, Baton Rouge e Milwaukee hanno mostrato che forse una parte dei neri – quelli più poveri ed emarginati – si è stancata di subire in modo passivo il mito sempre più grottesco di un’integrazione «post-razziale» in corso. Un mito venduto in diversi modi, va ricordato, anche da una parte dell’élite nera. Questa reazione potrebbe essere l’unica vera novità di quanto è successo negli ultimi giorni. Nel movimento Black Lives Matter la discussione su come rielaborare in modo efficace la propria proposta e su come organizzare politicamente la rabbia diffusa va avanti. Certo è che sono la violenza «post-razziale» della polizia e le consuete assoluzioni degli agenti imputati a rendere la situazione sempre più esasperante.
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