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La Bce e le responsabilità della politica

La Bce e le responsabilità della politicaChristine Lagarde – LaPresse

È sempre più irritante sul piano morale e intellettuale leggere i comunicati della Banca Centrale Europea. Siamo in un’economia di guerra, ma si punta a “normalizzare” la politica monetaria. Mai […]

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 12 giugno 2022

È sempre più irritante sul piano morale e intellettuale leggere i comunicati della Banca Centrale Europea. Siamo in un’economia di guerra, ma si punta a “normalizzare” la politica monetaria. Mai un accenno alle conseguenze sociali e, in particolare, occupazionali delle policy adottate, neanche quando, come nel testo pubblicato dopo il Consiglio di giovedì scorso, si annuncia l’inasprimento della stretta su acquisti di titoli sovrani e tassi di interesse. È conseguenza del suo statuto ultraliberista nel quale, a differenza di quanto scritto nelle carte della Federal Reserve e della Bank of England, è assente il livello dell’occupazione come obiettivo di policy.

La moneta è la più rilevante delle variabili macroeconomiche. Gli atti della Bce sono essenzialmente politici in quanto Francoforte sceglie chi, tra gli Stati e tra le classi sociali, paga di più i costi economici della “normalizzazione”. Ma attenzione: nonostante l’impianto liberista del suo statuto, è ingenuo assumere il faro dell’indipendenza per attaccare i “tecnici” assisi nella torre su Meno, come fanno i leader delle nostre destre oppure per rinchiudersi in un rassegnato silenzio o per prendere atto dei danni in arrivo, come invece avviene nel campo progressista. Le Banche centrali nazionali e la Bce riflettono, ovviamente senza cinghie di trasmissione, l’orientamento dei governi e suppliscono alla loro colpevole inazione. Quindi, la primaria responsabilità delle decisioni politiche della Bce è della politica. È un dato sempre più difficile da nascondere.

Quali sono le conseguenze della “svolta” annunciata dalla Bce? Vi sono alternative praticabili per evitare l’incancrenirsi dell’inflazione?

Un dato è chiaro: le decisioni di Francoforte spingono l’eurozona, in particolare gli Stati più zavorrati dal debito pubblico, verso la recessione e indeboliscono la resistenza dei governi europei all’offensiva di Mosca. È evidente anche da un’analisi superficiale: l’inflazione nell’Ue, a differenza di quella di Usa e Regno Unito, non deriva dal surriscaldamento dell’economia, a sua volta alimentato da ingente e prolungato aumento della spesa pubblica e da elevata dinamica salariale. Lo ha ricordato anche il Presidente Draghi nel suo recente intervento all’Ocse: la nostra è tutta inflazione importata, ossia dovuta all’impennata dei costi del gas e del petrolio in primis. La finanza pubblica continentale ha, infatti, raggiunto un andamento sostanzialmente neutrale, mentre i rinnovi contrattuali continuano ad essere ancorati all’obiettivo della dinamica dei prezzi “vicina ma sotto al 2%”. In tale quadro, per raffreddare i prezzi, la Bce punta ad un’ampia caduta del livello di attività produttiva, conseguenza dell’aumento dei tassi di interesse e del blocco dei soccorsi dal bilancio pubblico privato della monetizzazione del debito.

Per l’Italia, si prospetta un impatto ancora più grave, in quanto né il comunicato di Francoforte né la Presidente Lagarde in conferenza stampa hanno chiarito quali strumenti sono stati messi a punto per evitare ‘effetti asimmetrici’ dovuti alle diverse condizioni nazionali di finanza pubblica e a quali livelli di spread li metteranno in atto. L’incertezza “è un invito a far salire la pressione” sul debito pubblico italiano.

Data la natura dell’inflazione europea, governi e Parlamenti possono ancora imboccare strade alternative per il graduale ritorno alla “normalità”. La prima strada, anche sul terreno macroeconomico, è la costruzione delle condizioni per arrivare ad un cessate il fuoco con il Cremlino. Non soltanto il popolo ucraino e le affamate genti africane, anche le lavoratrici e i lavoratori europei non possono permettersi una “lunga guerra”. L’insistenza sull’invio di armi sempre più potenti a Kiev per “la vittoria dell’Ucraina” è irresponsabile e insostenibile per le fasce sociali in mare aperto da lungo tempo. La seconda strada da prendere passa per la correzione della regolazione dei mercati del gas e dell’energia per bloccare o almeno ridimensionare la primaria fonte inflativa. Il campo da gioco è europeo, ma in attesa che frutti “l’esplorazione” affidata dall’ultimo vertice dei Capi di Stato e di Governo alla Commissione, il tetto virtuale al prezzo del gas va imposto a livello nazionale, sull’esempio del dispositivo attuato da Spagna e Portogallo.

Infine, come ripetiamo da mesi, va percorsa la strada concertativa: ciascun governo dell’eurozona, deve, anche su input dell’esecutivo di Bruxelles, promuovere un patto tra sindacati e associazioni imprenditoriali per difendere il potere d’acquisto dei redditi da lavoro, dipendente e autonomo, attraverso sgravi fiscali temporanei, preferibilmente finanziati da uno strumento europeo tipo Pnrr.

I governi nazionali, nascosti dietro la BCE, hanno scelto la strada più facile: come sempre, la guerra la devono pagare lavoratrici e lavoratori.

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