La partita tra radio taxi 3570 e Uber, il gigante tecnologico, finisce per ora zero a zero. Il governo con lo stralcio dell’art.10, contestato dai tassisti, ha tolto di mezzo il principale ostacolo ad una rapida approvazione della legge sulla concorrenza. Con la loro mobilitazione i tassisti hanno sollevato questioni attinenti al funzionamento del «libero mercato» e della stessa democrazia. Questioni importanti che sarebbe sbagliato ignorare.
I conducenti di taxi si portano dietro un’immagine negativa che non ha nulla in comune con la battaglia di queste settimane. Ci riferiamo a un recente passato in cui al tavolo delle trattative con le amministrazioni comunali si discuteva di tariffe, di orari di lavoro e, soprattutto, di limiti rigidi all’accesso di altri conducenti al servizio taxi.

Gli accordi firmati dai rappresentanti di categoria avevano come unica bussola la difesa a oltranza di una rendita di posizione: la titolarità «esclusiva» del trasporto pubblico non di linea, certificata da una «licenza» acquistata dai più a peso d’oro. Da questa impostazione derivano sia l’inadeguatezza e il progressivo scadimento del servizio sia l’isolamento sociale e politico della categoria, chiusa nella conservazione dello statu quo, insensibile a qualsiasi un progetto condiviso di mobilità urbana sostenibile.

Detto ciò, la mobilitazione contro l’art.10 ha un segno del tutto nuovo e diverso. Mette al centro la questione, assai sottovalutata, delle ricadute delle innovazioni tecnologiche sul tessuto economico e sociale. Ha il merito di mostrare che le innovazioni, non governate, provocano lacerazioni sociali, accentuano frammentazione e particolarismi, aggravano diseguaglianze. Uber sta decimando il servizio taxi in molti paesi del mondo sulla base di un algoritmo che consente all’azienda di funzionare e macinare profitti senza possedere macchine né assumere lavoratori. Zero costi, insomma. L’autista ci mette l’auto, la benzina, l’assicurazione. La piattaforma tecnologica trattiene per sé il 25 per cento degli incassi.

Giustamente ai 40 mila conducenti italiani di taxi non va giù l’idea che il loro lavoro perda valore, inglobato in un ingranaggio di cui non hanno alcun controllo. L’art.10, ora stralciato, disponeva appunto «l’adeguamento dell’offerta di servizi alle forme di mobilità che si svolgono mediante piattaforme tecnologiche per l’interconnessione dei passeggeri e dei conducenti». Una porta spalancata a Uber, secondo i tassisti. Al contrario, per i liberali di casa nostra, un salto nella modernità e l’apertura del mercato alla concorrenza.

Ma quale concorrenza può esserci mai tra una potente multinazionale come Uber e le cooperative e associazioni di radio taxi? Nell’epoca del capitalismo finanziario e digitale regna piuttosto la legge del più forte. Le chiavi di accesso al mercato sono quasi tutte nelle mani di poche aziende hi-tech, tanto da poter parlare di un nuovo «feudalesimo digitale». I tempi sono cambiati e il «tassinaro», immortalato da Alberto Sordi in un film di 40 anni fa, ha perso la giovialità, l’ottimismo e la bonomia. Oggi appare incupito, preoccupato e incattivito. Si sente assediato e minacciato da una multinazionale che si fa strada con mezzi leciti e illeciti, come ha documentato il Guardian in una recente inchiesta. Non accetta la prospettiva di diventare rider ed essere inghiottito nel gorgo della «gig economy», dove gig in inglese sta per lavoro temporaneo, lavoretto.

Ecco perché oggi non ha più senso parlare di chiusure corporative a proposito dei tassisti. Viviamo in un mondo in cui alcune multinazionali, in virtù della loro potenza finanziaria e tecnologica, occupano spazi di mercato, indirizzano i consumi, modellano l’economia a propria immagine, piegano i poteri pubblici ai propri interessi. Anche l’art.10, apparentemente innocuo nella sua neutralità, avrebbe provocato un rapido scivolamento verso il basso della scala sociale di un bel po’ di lavoratori autonomi, quali sono i tassisti.

La distruzione creatrice» di cui parlava Schumpeter, come occasione di maggiore concorrenza e di sviluppo, è roba paleocapitalistica. Con la rivoluzione digitale, siamo alla distruzione tout court di molti settori e attività e all’accelerazione dei processi di concentrazione del potere economico e della ricchezza. A nulla valgono le deboli misure antitrust contro i nuovi monopoli, messe in atto negli Stati Uniti e nell’Ue.

Non c’è solo Uber. I tassisti hanno lanciato, più o meno consapevolmente, una sfida importante che spetta alla sinistra raccogliere. In gioco c’è l’uso e il controllo democratico delle «piattaforme digitali», se cioè le innovazioni debbano essere appannaggio di pochi padroni o al servizio dell’interesse generale. Questo è il tema. Si tratta di difendere il valore del lavoro, la sua dignità e, insieme, tutto un mondo di relazioni sociali, umane e culturali, che rischia di scomparire sotto i nostri occhi. Sono tante le ragioni per un impegno che sottragga alla demagogia sovranista e di destra gli strati sociali più esposti alla concorrenza (sleale) dei padroni delle nuove tecnologie.