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La bandiera strappata degli aborigeni d’Australia

La bandiera strappata degli aborigeni d’AustraliaSidney, gennaio 2020. Un’imbarcazione battente bandiera aborigena partecipa alla « Wugulora Indigenous Morning Ceremony» – Ap

Questioni di copyright La "Aboriginal Flag" ha sconfitto tanti avversari, ma ora vacilla contro il più temibile: il profitto. Un simbolo semplice e potente, che si è imposto solo dopo una lunga battaglia, rischia di dover essere ammainato

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 12 settembre 2020

Una banda nera sopra, una banda ocra sotto, un cerchio giallo nel mezzo: la gente e la sua pelle scura, la terra e la sua vena rossa, il sole che splende su tutto. Simboli semplici e potenti. Quando disegnò la bandiera degli aborigeni d’Australia, Harold J. Thomas aveva 24 anni e si era appena diplomato alla South Australia School of Art, uno dei pochi aborigeni nel campus. Quel drappo divenne l’anima di un popolo che, scampato a stento a un genocidio, fece sapere al mondo di voler continuare ad esistere e, incredibilmente, ci riuscì.

LA BANDIERA ABORIGENA venne inalberata in ogni manifestazione, tatuata sulla pelle di migliaia di attivisti, riprodotta sui campi di football, dipinta su edifici pubblici e privati, stampata su tonnellate di magliette. Ha sconfitto ogni avversario, la Aboriginal Flag. Ma oggi affronta il più pericoloso di tutti: il profitto. Harold Thomas ha venduto il copyright a un’azienda di bianchi, che ha tempestato ogni utente di intimazioni legali «cease and desist»: o ci pagate le royalties o smettete di usare quel simbolo.

[do action=”citazione”]È un po’ come se san Pietro si fosse venduto i diritti del crocifisso.[/do]

Come fedeli frastornati, dal 2018 gli utilizzatori della bandiera aborigena hanno iniziato a vedersi recapitare richieste di denaro per continuare a stampare quel simbolo sopra, ad esempio, le magliette che molte organizzazioni aborigene vendono per finanziare scuole e centri sanitari nelle zone più dimenticate, oppure sulle attrezzature sportive lanciate da atleti pure aborigeni, e su vario merchandising musicale e mediatico. Alcuni hanno accettato, altri rifiutato con sdegno. Finché è esploso il bubbone più grosso.

LA AUSTRALIAN FOOTBALL LEAGUE è la società che gestisce il football australiano, quella specie di guerra combattuta su un campo ovale come il pallone, in cui si può quasi tutto e i passaggi si effettuano prendendo a calci o a pugni la palla (e non occasionalmente gli avversari). Ebbene, dopo lunghe trattative la Afl ha deciso di togliere la bandiera aborigena nelle sue competizioni e smettere di dipingerne versioni gigantesche sui terreni di gioco: impossibile chiudere un accordo con i detentori del copyright. Apriti cielo. Sì perché i diritti, la storia, la politica, tutto molto bello, ma questo è il football, non scherziamo.

[do action=”citazione”]È così che l’Australia bianca si è accorta che qualcosa non andava.[/do]

IL NUOVO DETENTORE DEI DIRITTI sulla bandiera è un caucasico di nome Ben Wooster, titolare della Wam Clothing Ldt. Ha sostituito l’azienda di tessuti indiana che li deteneva prima di lui, e che non risulta taglieggiasse chi ne stampava la sua versione, soprattutto no profit. Wooster possiede i diritti per l’abbigliamento e per i media anche digitali, quindi dalla canottiera alla partita in mondovisione. Ed è ben deciso a trasformare in dollari il genio grafico di Harold Thomas e insieme il sudore e il sangue delle migliaia di aborigeni che hanno trasformato quel disegno nel simbolo di un popolo.

 

Harold Thomas al centro della “sua bandiera”

 

LA GENTE DI HAROLD THOMAS sono i Luritja, un gruppo dell’Australia centrale sparso in 30mila chilometri quadrati di rocce e terra rossa nel desertico outback. Terra che consideravano loro e che invece la corona britannica riteneva terra nullius, in sostanza del primo bianco che se la prendeva. Nel 1971 le lotte degli aborigeni erano giusto all’inizio. Dal primo epico viaggio di James Cook nel 1770 il continente australiano era considerato di nessuno e i suoi primi abitanti un po’ più che animali ma molto meno che esseri umani. Non potevano votare, non erano censiti, non potevano possedere cose come, ad esempio, la terra che abitavano da centinaia e spesso migliaia di anni. Continuò così fino al 1967 quando un referendum rese gli aborigeni cittadini australiani.

MA POSSEDERE LA TERRA era un’altra questione, e nessuno fece niente finché nel 1972 quattro attivisti piantarono su un’aiuola demaniale davanti al parlamento di Canberra la Aboriginal Tent Embassy, la tenda-ambasciata da cui reclamavano i loro diritti. Nata da poco, la bandiera cominciò a garrire su quattro teste sotto un ombrellone, poi sostituito da una tenda canadese e poi da una specie di baracca. Le lotte presero piede, diventarono lentamente popolari, infransero con molta fatica la dura scorza dell’Australia bianca.

E mentre Harold Thomas e la sua bandiera diventavano ogni giorno più noti, un aborigeno trentenne di Torres Strait di nome Eddie Mabo venne assunto come giardiniere alla James Cook University e falciando l’erba e chiacchierando con i docenti, scoprì che la “sua” terra, quella della sua famiglia da 16 generazioni, per la legge australiana non era sua ma della regina Elisabetta. Negli anni Ottanta Mabo fece causa e percorse ogni metro della legge australiana, morì di cancro nel 1992 pochi mesi prima che l’ultimo tribunale gli desse ragione: gli aborigeni potevano possedere le terre ancestrali. Fuori dall’aula, la bandiera aborigena garriva più che mai. Bruce Chatwin aveva già scritto Le vie dei canti e Robert Hughes La riva fatale, gli aborigeni non erano più una stravaganza dell’altro emisfero.

MA NON BASTAVA. Nel 1994 un’atleta aborigena, la velocista Cathy Freeman, vinse i 200 ai Giochi del Commonwealth, e fece il giro d’onore con la bandiera australiana e con la bandiera aborigena. Successe il finimondo peggio del pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos, mezzo paese chiese la sua testa, più molti media, quelli di Rupert Murdoch soprattutto (l’unico giornale europeo ad accorgersene fu quello che avete in mano).

 

 

Cathy Freeman non chiese scusa, anzi vinse anche i 400 e lo rifece. E nel frattempo arrivò in parlamento il rapporto sulla Stolen Generation, la generazione rubata, che documentava come per decenni l’Australia bianca avesse tolto i figli alle famiglie aborigene per farli crescere da famiglie bianche in un terrificante sforzo di integrazione coatta. La bandiera sventolava a mezz’asta.

FU IL COLPO DI GRAZIA alle resistenze razziali, era il 1997, lo stesso anno in cui la corte suprema riconosceva Harold Thomas come unico titolare del copyright dopo che la “sua” bandiera era stata dichiarata simbolo nazionale ufficiale, la sola bandiera al mondo di proprietà privata. Il premier conservatore John Howard rifiutò le scuse dello stato e venne scavalcato in massa, tanto che all’apertura delle Olimpiadi di Sydney 2000 gli atleti e il pubblico passarono sotto un ponte con un’enorme bandiera aborigena e una scritta altrettanto enorme: «Sorry». E Cathy Freeman accese il braciere olimpico, vinse i 400 e tutto lo stadio applaudì le due bandiere nel giro d’onore.

DOPO VENT’ANNI arrivano Ben Wooster e la sua Wam Clothing (e la sua Gift Mate Ltd per i souvenir) a battere cassa. Come sia venuto in mente a Harold Thomas di vendere proprio a lui i diritti della preziosa bandiera è un mistero, che ha probabilmente a che fare con i dollari. Wooster ha uno strepitoso precedente: un’altra sua azienda, la Birubi Art Ltd, è stata multata di 2,3 milioni di dollari australiani (circa 1,5 milioni di euro) per spaccio di arte aborigena taroccata: aveva venduto almeno 50mila boomerang e didgeridoo «originali» fabbricati in Indonesia. L’imprenditore ha prontamente chiuso l’azienda, e poco dopo ha aperto la Wam. E ora sta facendo i conti con la petizione Free the flag, che sui social media ha raggiunto 150mila adesioni.

 

L’immagine portante della campagna Free the Flag

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