La banda degli onesti
Teatro di Roma In tutte le occasioni di festa, in ogni famiglia o in società, c’è sempre qualcuno che per motivi propri (o magari solo per richiamare su di sé l’attenzione) sbraita e alza la voce per rompere l’atmosfera
Teatro di Roma In tutte le occasioni di festa, in ogni famiglia o in società, c’è sempre qualcuno che per motivi propri (o magari solo per richiamare su di sé l’attenzione) sbraita e alza la voce per rompere l’atmosfera
In tutte le occasioni di festa, in ogni famiglia o in società, c’è sempre qualcuno che per motivi propri (o magari solo per richiamare su di sé l’attenzione) sbraita e alza la voce per rompere l’atmosfera. Succede sempre, si sa. Nell’ambiente teatrale ci sarebbe da «festeggiare» (si fa per dire) sia la finalmente avvenuta riunione di un «tavolo» cui siederanno insieme il ministero dei beni culturali, le categorie di lavoratori sindacalmente rappresentati e, prima volta assoluta, anche quegli operatori del settore senza rappresentanza che hanno in queste settimane giustamente reclamato un qualche aiuto (come le famose scatole funebri in piazza Duomo). In primo piano «alla ribalta» invece, anche un brand importante della scena nazionale, il Teatro di Roma (dopo la faticosa soluzione del Piccolo milanese) riesce finalmente a definire il proprio organigramma, la cui definizione si trascinava ormai da molti mesi. Tra esitazioni politico-personalistiche che la pandemia e il suo lockdown non hanno certo contribuito a risolvere.
FINALMENTE, questa settimana il cda si è deciso, e l’altro ieri, dopo lunga scrematura (e resistenza alle pressioni), ha nominato il nuovo direttore, colui che dovrà tenere in mano l’organizzazione del lavoro e dritta la barra tra un bilancio sano e i progetti dei due consulenti artistici per l’Argentina e l’India (rispettivamente Giorgio Barberio Corsetti e Francesca Corona). Il prescelto è Pier Francesco Pinelli. Un manager di spettacolo sconosciuto ai più, ma che nell’ultimo decennio ha lavorato su due nodi tra i più intricati della scena italiana: prima per alcuni anni commissario all’Istituto del dramma antico di Siracusa, e poi sul delicato equilibrio tra gli enti lirico-sinfonici, tra i quali dividere il contributi dello stato.
Alle due funzioni ha assolto con piena dignità (per quanto possibile a un umano, ma forse anche un po’ di più). Ora che la nomina è stata fatta e tutto il teatro dovrebbe rimboccarsi mani e tempie, la sua nomina ha scatenato una insana passione per il candidato escluso, Luca De Fusco. Il regista napoletano, a pensarci bene, non poteva proprio essere nominato a un ruolo di puro management, visto che esibisce fior di incarichi ricoperti: dal ricchissimo Napoli Teatro Festival a diversi teatri stabili, da Venezia a Napoli. Come avrebbe potuto occuparsi della sola parte amministrativa, lasciando ad altri il compito delle scelte: l’incidente (o lo scontro) sarebbe stato più che annunciato, quasi scontato.
E INVECE sui giornali sono iniziati gli attacchi contro questa nomina.
Si rinfaccia al neo nominato Pinelli di essersi laureato in materie scientifiche, come se, oltre agli carichi ricoperti in campo teatrale con un certo successo, non ci fosse quel cognome ingombrante che lo rivela nipote di uno dei padri dello spettacolo italiano del dopoguerra, Tullio Pinelli, salda garanzia formativa alla faccia di qualsiasi laurea compilativa in un Dams. Ma particolarmente feroci sono gli attacchi di un’altra persona, nominata nel cda dal ministero. Proprio contro la sua nomina si era pronunciato pesantemente l’ex direttore generale dell’Auditorium romano, da cui lei risulta dipendente, e quindi poco compatibile con la permanenza in due istituzioni entrambi finanziati da regione e comune, per certi versi perfino concorrenziali. La signora in questione lancia strali poco eleganti sui colleghi consiglieri e su possibili compensi. Meno eleganti delle toilettes che sfoggia sulle pagine di Dagospia, dove è assiduamente mostrata. Una situazione da operetta o da vaudeville, poco adatta per altro al momento di pandemia che per il teatro vuol dire chiusura. E per i suoi molti addetti che vivono facendolo, significa letteralmente disoccupazione e fame.
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