La bancarotta della natura. E della politica
Siamo a terra «Risolvere i problemi ambientali, costa troppo rispetto ai benefici che apporta». Un ritornello continuato poi nel dibattito sul fumo e le piogge acide
Siamo a terra «Risolvere i problemi ambientali, costa troppo rispetto ai benefici che apporta». Un ritornello continuato poi nel dibattito sul fumo e le piogge acide
L’otto aprile di quest’anno Livio Pepino, presidente del «Controsservatorio Valsusa» con l’appoggio di quindici altri firmatari, ha inviato un esposto al Tribunale permanente dei popoli presso la Fondazione Basso.
Il testo chiedeva «l’apertura di un procedimento teso ad accertare (con ogni conseguente deliberazione) se nella vicenda della progettazione e costruzione della cosiddetta linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione, che vede contrapposte in un conflitto ormai ultraventennale, da un lato, le istituzioni centrali dello stato italiano e le società preposte alla realizzazione dell’opera e, dall’altro lato, la stragrande maggioranza della popolazione e delle istituzioni della Val Susa, siano stati rispettati i diritti fondamentali degli abitanti della valle e della comunità locale ovvero se – come ritengono gli esponenti – vi siano state gravi e sistematiche violazioni di tali diritti…»
Seguiva poi una precisa e intransigente ricostruzione dell’intera vicenda che i nostri lettori possono leggere in link (oppure a questo indirizzo web).
L’otto aprile il nuovo governo italiano è in carica da 15 giorni e mancano poche settimane alle elezioni europee. Non c’è spazio per altro. Valsusa si può accantonare; se ne occuperanno, a tempo opportuno, polizia e procure della repubblica.
Nello stesso periodo di tempo è stato reso noto in Italia un nuovo rapporto al Club di Roma, firmato da due scienziati ambientali, Johan Rockström e Anders Wijkman. Forse ha poco senso che uno dei più rinomati studi ecologici abbia per riferimento la capitale italiana, come quaranta o trenta anni fa, ai tempi di Aurelio Peccei e del suo Club di Roma.
Le scelte politiche dell’Italia puntano, nel disordine, sempre e comunque alla crescita, senza che nessuno si chieda mai il motivo per cui la crescita made in Italy, fatta da noi, si risolva sempre in spreco, corruzione e moltiplicazione dei rifiuti, come a Malagrotta, come alla Ilva di Taranto. Leggendo il nuovo rapporto, dal titolo “Natura in bancarotta” (Edizioni Ambiente, a cura di Gianfranco Bologna) abbiamo notato che a fianco dell’Ipcc esiste dal 2010 un suo «equivalente scientifico nel settore della biodiversità e dei servizi degli ecosistemi» l’Ipbes (Intergovernmental Platform on Biodiversity and Ecosystem Services).
All’Ipbes hanno aderito 118 paesi, tra cui naturalmente tutti i più importanti, Usa, Cina, Germania, Giappone e così via; più di cento paesi, ma non l’Italia.
Che vi sia una politica nazionale sulla biodiversità? Finché qualcuno non lo riveli continueremo a pensare che per disordine, per cattiva politica, per incapacità, per reale disinteresse alla biodiversità, l’Italia non ha saputo neppure iscriversi al nuovo istituto internazionale.
Il contributo principale del Rapporto al club di Roma «La natura in bancarotta» è quello di riflettere sul nesso tra politica e scienza, tra governanti e scienziati. «La politica, di destra o di sinistra non importa, ritiene che il tipo di crescita economica che ha prevalso dalla fine della Seconda guerra mondiale continuerà in eterno. Tutti parlano di crescita, ma nessuno si domanda quanto questa situazione potrà durare».
E più avanti «la crescita infinita del flusso di energia e materiali su un pianeta limitato è impossibile. Che molti economisti sostengano questa idea non la rende giusta. Nel lungo periodo non possiamo violare le leggi fondamentali della natura; ciononostante molti politici continuano a nascondere la testa sotto la sabbia».
Se Wijkman il politico ambientale di lungo corso scrive le parole che precedono, la replica dello scienziato Rockström si può riassumere così. Noi esperti e studiosi non chiediamo troppo, ma troppo poco: ci facciamo carico, offriamo continui compromessi perché la politica, sottoposta alle sue leggi assolute, possa accettarli.
«Questa spirale di compromessi diventa via via più insidiosa. Quando i negazionisti come Bjørn Lomborg vengono messi all’angolo dalla scienza, l’ultimo argomento che sfoderano (nonostante il consenso scientifico) è sempre il compromesso, spesso ammantato di termini economici.
Risolvere i problemi ambientali, dicono, costa troppo rispetto ai benefici che apporta. Ripetono questo ritornello dagli anni sessanta – quando Rachel Carson, autrice di Primavera silenziosa fornì le prove degli effetti tossici delle sostanze chimiche e dei metalli pesanti – e hanno continuato a farlo nel corso del dibattito sugli effetti negativi del fumo e sulle piogge acide».
Per tornare alla Valsusa, il Tav tra Susa e la Francia, tunnel compreso, era presentato come un tratto indispensabile del percorso ferroviario progettato per attraversare l’Europa da ovest a est, da Lisbona a Kiev.
Si doveva assolutamente evitare che un corridoio tanto importante bypassasse l’Italia. Inoltre si doveva sopperire al forte aumento di traffici atteso nei futuri decenni. La storia è andata diversamente: non c’è più ombra di aumento dei traffici, il corridoio è stato fatto a pezzi e buttato via.
Rimane solo un sistema politico che vuole imporre la propria volontà a tutti i costi, convinto com’è che sia buona crescita anche fare buchi inutili nella montagna e sia buona politica (anzi, l’unico patto sociale possibile per evitare l’anarchia) imporre a tutti la volontà della maggioranza, quale che sia la legge elettorale che la sostiene e quale che sia la scelta da imporre a tutto il popolo.
Non conta più l’utilità, non contano i costi dell’opera. Se ne parlerà, sempre che lo si riterrà opportuno, tra anni. Adesso occorre l’assenso alla volontà politica, cui tutti, scienziati e montanari compresi, debbono assoggettarsi.
Un po’ più in là – continuiamo a ripeterlo – in un’altra valle, in un altro Cantone, in anni ormai lontani, non si chiedeva forse con un’altra legge altrettanto obbligatoria per tutto il popolo, di inchinarsi al cappello dell’imperatore?
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