La baia di Rio, il magico e il tragico
Intervista Intervista a Dario De Dominicis, vincitore del «Terra Madre Award 2020» al festival della fotografia etica di Lodi (Mi). «Per anni ho frequentato i pescatori della Baia Guanabara, senza l’assillo di fotografare»
Intervista Intervista a Dario De Dominicis, vincitore del «Terra Madre Award 2020» al festival della fotografia etica di Lodi (Mi). «Per anni ho frequentato i pescatori della Baia Guanabara, senza l’assillo di fotografare»
Quella che oggi è la più conosciuta baia del Brasile, gli indios l’avevano denominata Guanabara, che significa «seno da dove viene il mare». I primi esploratori portoghesi, arrivati nel gennaio del 1502, scambiarono la baia per la foce di un fiume e la chiamarono Rio de Janeiro. Nel 1823 Charles Darwin scriveva nei suoi diari: «La baia di Guanabara supera in splendore tutto ciò che gli europei possono vedere nel loro paese». Questo straordinario ambiente, che ha una estensione superiore ai 400 kmq, ha esercitato nel corso dei secoli un forte richiamo. La vertiginosa urbanizzazione degli ultimi decenni ai margini della baia ha prodotto la formazione di ben 16 municipi, agglomerati urbani in cui si consuma l’esistenza di quasi 9 milioni di persone. Gli insediamenti umani, le attività industriali e portuali hanno finito per alterare gravemente l’ecosistema della baia.
In questa realtà arriva nel 2009 il fotoreporter Dario De Dominicis col desiderio di mescolarsi e cogliere, documentare e raccontare il magico e il tragico di questi luoghi: «Una volta arrivato a Rio, constatato che è davvero la più bella città del mondo, ho cominciato a esplorare la baia e la zona nord, scoprendo le comunità dei pescatori, la loro vita, l’ambiente in cui operano». Col reportage Alla sinistra del Cristo, esposto in queste settimane al Festival della fotografia etica di Lodi (fino a domenica 25 ottobre), De Dominicis è risultato vincitore del Madre Terra Award 2020. Parliamo con lui di questo suo lavoro.
Il tuo sguardo si è concentrato sulla realtà ambientale e umana che si trova alla sinistra della statua del Cristo Redentor, la Rio dei quartieri poveri, poco conosciuta dai turisti che frequentano la zona sud alla destra del Cristo, dove si trovano le spiagge di Copacabana e Ipanema. Come ti sei inserito in questa realtà?
Tutto quello che rimane alla sinistra del Cristo rappresenta una umanità che ricorda le borgate romane raccontate da Pasolini. Mi sono innamorato dei pescatori perché attraverso di essi potevo rappresentare le trasformazioni che ha subito la baia. I pescatori sono persone che hanno una forza straordinaria, sono attaccati al mare anche se subiscono sulla propria pelle il degrado e l’inquinamento della baia. Si tratta di una comunità di 8 mila persone che portano avanti una attività di tipo artigianale, con la superficie disponibile per la pesca che si riduce sempre di più a causa degli impianti e delle strutture presenti nella baia. E poi gli attacchi sistematici che subiscono per scoraggiare la loro attività. Ho voluto affrontare anche la questione della sicurezza alimentare, per le sostanze tossiche presenti nelle acque e la contaminazione che subisce la fauna marina.
Quali sono stati gli ostacoli che hai incontrato e come hai gestito il rapporto con i pescatori?
I pescatori, come tutti gli uomini di mare, sono persone semplici, aperte e ospitali, senza pregiudizi e ostilità. Mostrano diffidenza verso alcuni settori dell’informazione brasiliana che non riconosce il loro ruolo. Come straniero ho avuto vita facile e quando ho cominciato a fotografare hanno mostrato di gradire il mio interesse. Le difficoltà sono venute dal territorio perché le comunità di pesca sono dentro le favelas e non è facile muoversi liberamente, ma non mi sono mai sentito in pericolo. Il rapporto con i pescatori è durato dal 2013 al 2018 e in alcuni periodi ho frequentato giornalmente le zone in cui operano. Comunicavo con loro, osservavo l’ambiente in cui svolgono il lavoro, senza l’assillo di fotografare, aspettando il momento favorevole per farlo. Ho spesso associato la dura vita dei pescatori della Baia Guanabara a quelli rappresentati da Luchino Visconti in La terra trema.
Nel corso di questi ultimi anni sono state numerose le iniziative delle associazioni di pescatori per difendere il loro lavoro, con richieste che riguardavano la salvaguardia della baia. Il «Movimento Baia Viva», che da anni si batte per salvare l’ecosistema, li ha sempre sostenuti. Cosa puoi dirci di queste iniziative?
In occasione della Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, tenuta a Rio nel 2012, i pescatori avevano alzato la voce per denunciare l’uso predatorio delle acque della baia, il crescente inquinamento causato da attività petrolifere e portuali sempre più invasive e dalla scarsa depurazione delle acque che confluiscono nella baia. In cambio hanno ricevuto minacce e nelle settimane successive quattro pescatori sono stati assassinati. Anche prima delle Olimpiadi del 2016 i pescatori hanno preso l’iniziativa, manifestando contro il degrado della baia e richiamando l’attenzione dei media di tutto il mondo. Il Comitato olimpico imponeva il risanamento delle acque per l’80%, obiettivo rimasto sulla carta. L’unica cosa che le autorità governative hanno fatto è stato quello di mettere delle barriere galleggianti alle foci dei fiumi per trattenere i rifiuti.
Dalle tue foto emergono i problemi di salute che affliggono i pescatori a causa delle acque inquinate determinato da idrocarburi e metalli pesanti. Esiste un monitoraggio degli inquinanti e un controllo sanitario sulle persone che vivono in quell’ambiente?
Prima delle Olimpiadi fu affidato a un biologo il compito di effettuare l’analisi microbiologica e chimico-fisica delle acque della baia. I risultati confermarono la gravità della situazione e il rischio sanitario. Io ho cercato di capire come si sviluppano certe malattie tra i pescatori a causa del contatto con sostanze tossiche e il ruolo che esse possono svolgere sul lungo periodo. Non posso dimenticare che quasi 50 anni fa uno dei lavori più belli nella storia della fotografia fu quello realizzato dal fotografo documentarista americano William Eugene Smith che realizzò Minamata, un reportage in cui venivano documentati gli effetti devastanti dell’inquinamento da mercurio su una comunità di pescatori giapponesi. Ho associato il suo lavoro a quello che stavo svolgendo nella baia di Rio, ricordando le sue considerazioni sulla differenza tra sviluppo e progresso e come le due cose spesso non coincidono.
Nelle tue foto viene rappresentata attualmente la baia , ma le immagini lasciano intuire come doveva essere fino ad alcuni decenni fa. Durante il lockdown, con la sospensione di molte attività industriali, le acque della baia, attraverso un processo di autodepurazione, si sono in parte rigenerate, assumendo un colore diverso, con la ricomparsa delle tartarughe marine.
Io ho messo in evidenza i problemi ambientali e la condizione dei pescatori, ma il mio scopo non era quello di sottolineare il degrado, perché la baia, nonostante tutto, è un posto bellissimo e i pescatori raccontano che fino a pochi decenni fa le balene venivano a riprodursi. La baia non è solo uno spazio geografico, ma un ecosistema unico e tra i più complessi del pianeta. Il mio lavoro vuole sottolineare la necessità di proteggere la comunità dei pescatori per proteggere habitat e biodiversità. Mi spiace non aver potuto documentare i cambiamenti intervenuti durante il lockdown. Questa è la dimostrazione che la natura è in grado di rigenerarsi e riparare i guasti che noi produciamo, a condizione di darle il tempo necessario.
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