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La bacchetta magica di Speranza Scappucci

La bacchetta magica di Speranza ScappucciSperanza Scappucci, sotto una scena de La Traviata allo Sferisterio

Intervista Sul podio dello Sferisterio di Macerata il talento della musicista romana che dirige l'allestimento della Traviata

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 8 agosto 2014
Andrea PennaMACERATA

Sembrava una provocazione, quella dello Sferisterio di Macerata e del direttore artistico Francesco Micheli: tre titoli d’opera con protagoniste femminili si mettono in fila in pochi secondi, tre donne in buca a guidare le produzioni di un festival non è una soluzione del tutto scontata, anche in un’epoca di presunta parità.

Eppure quel che ha sorpreso di Speranza Scappucci, direttore di Traviata in scena a Macerata in queste settimane (prossima recita sabato 9 agosto ) è che abbia atteso così tanto per rivelare un talento sicuro e apparentemente sostenuto da un’esperienza sul podio che in realtà la musicista romana ha maturato di recente.

Il debutto maceratese si è presentato come un’esperienza non facile: titolo ‘icona’ dell’opera lirica, in un allestimento storico e amatissimo allo Sterisferio (la Traviata degli specchi regia di Henning Brockhaus e scene di Josef Svoboda); uno spettacolo all’aperto, col maltempo in agguato e oltre un’ora di attesa alla prima per via della pioggia.

Una donna dal podio può offrire una lettura differente, messa a confronto con le situazioni drammaturgiche che coinvolgono i personaggi femminili? Oppure è una semplice banalità?

Non sono sicura della risposta: il mio approccio verso l’opera, anche come pianista e accompagnatrice, è sempre partito dal testo e dalla necessità di far aderire testo e musica, procedimento laborioso e delicato, che però non presenta grandi differenze fra personaggi maschili o femminili. Naturalmente è possibile che io senta, reagisca con immediatezza quasi involontaria a sollecitazioni emozionali e psicologiche che coinvolgono la sfera femminile.

L’opera lirica vive un’epoca di cambiamenti, sul piano registico, organizzativo, economico, di interesse del pubblico: il grande repertorio italiano sembra soffrire particolarmente nell’adattarsi al nuovo corso. Come mai?

Lei tocca alcuni motivi più generali che sono legati al cambiamento di epoca, in cui, è vero, questo genere operistico fatica a trovare le chiavi di un rinnovamento o adattamento. Ci sono però anche motivi specifici: per scrittura e costruzione musicale l’opera italiana di Bellini, Donizetti e anche di molte opere verdiane, inclusa La traviata, può apparentemente sembrare ’facile’. Le caratteristiche di immediatezza e stringatezza di strutture basate su un tracciato melodico e un accompagnamento orchestrale a prima vista scarno, sono lette talvolta con eccesso di superficialità. Il pregiudizio della ‘Zum-pa-pa musik’ ( denigrazione ottocentesca di marca wagneriana contro Verdi, nda) è ancora dietro l’angolo. Al contrario per il direttore è necessario scavare, trovare i colori orchestrali, con fatica e studio, battuta per battuta. Per questo debutto ho ristudiato da capo La traviata scoprendo innumerevoli dettagli nuovi e inattesi.

Traviata

Eppure ha alle spalle tante produzioni affrontate come pianista a fianco di direttori celebri, Metha, Levine, Muti: che segno hanno lasciato?

Un percorso formativo, una vera scuola. Soprattutto per Verdi il rapporto lungo e fruttuoso con Riccardo Muti è stato fondamentale, mi ha offerto strumenti, prospettive e ottica interpretativa approfonditi per affrontare l’intera produzione verdiana, anche se non ho lavorato con lui in Traviata, ma in altri titoli.

Dal pianoforte d’accompagnamento al podio: un tempo era il percorso obbligato per il vero Maestro italiano, e adesso?

E adesso sembra una vera e propria eccezione, la situazione si è totalmente invertita, è piuttosto incredibile. Ma va bene così.

Quando ha capito che la sua carriera aveva preso una nuova strada, che era ormai un direttore d’orchestra?

Lo sviluppo è durato anni, ma la conferma l’ho avuta solo con il debutto, con Così fan tutte di Mozart, opera tutt’altro che semplice, alla Yale Opera. Fra Vienna e New York avevo maturato un bagaglio notevole di preparazione al pianoforte, con tanti cantanti, sul quel titolo, ma solo dopo la prima recita è apparso chiaro a me come a tanti amici e colleghi che avevo realmente voltato pagina: sembrava non avessi fatto altro da anni. Una transizione che da subito è sembrata estremamente naturale.

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