L’8 settembre, la seta e il cotone
In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss
In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss
L’8 settembre, l’11 settembre. Date che parlano di momenti drammatici e pensieri difficili. La caduta del fascismo monarchico (e l’avvio della Repubblica di Salò e della resistenza dei partigiani), l’attentato alle Due Torri e il golpe in Cile di mezzo secolo fa. Cose che possono evocare il “fascismo eterno” di Umberto Eco (ci entra anche la visione del mondo “talebana” e dei fondamentalismi di matrice islamica). E domani è un’altra data drammatica: la morte in Iran, l’anno scorso, di Mahsa Amini, che scatenò la rivolta delle donne. Potrebbe reinnescare le proteste, e la brutale repressione del regime cerca di impedirlo.
Ho avuto un breve scambio con un caro amico e compagno. Una sua affermazione – questo 8 settembre non sarà passato invano se riflettiamo sulle origini mai rimosse esplicitamente della storia politica del partito di Giorgia Meloni, radicata nella versione particolarmente efferata del fascismo “repubblichino” – mi ha fatto controbattere: ma se teniamo lo sguardo fisso su Salò non rischiamo di farci sfuggire altri aspetti forse meno truci, ma non meno preoccupanti del fenomeno?
Un’altra idea – che un altro caro amico non esiterà a criticare in quanto pericolosamente “moderata” – ogni tanto si affaccia alla mia mente: pur agendo nel modo più determinato contro questa destra che dimostra ogni giorno di più di essere votata al “sorvegliare e punire”, non sarà anche opportuno incoraggiare in qualche modo il proposito meloniano, ambiguo quanto si vuole, di fare di una destra postfascista un partito “conservatore”?
La faccenda – aperta e non conclusa dal tentativo di Fiuggi di Fini – avrebbe a che vedere con il linguaggio, le idee che un’opposizione, la più efficace e “agguerrita”, dovrebbe essere capace di dotarsi.
Per esempio,- ripensando all’8 settembre, più che chiedere nuove (e sempre monche) abiure, insistere per ottenere il riconoscimento pieno di un fatto storico essenziale: se oggi la presidente del Consiglio può riempirsi la bocca dell’interesse e dell’orgoglio nazionale e patriottico, quanto riconoscimento dovrebbe nutrire proprio per quella lotta partigiana e antifascista che, nel terribile frangente di una guerra che l’Italia con la Germania e il Giappone stava perdendo catastroficamente, fu l’unica forza capace di riscattare almeno in parte la dignità e, se piace, l’onore di questo paese?
Una capacità di fare “l’interesse del paese” che tra l’altro andrebbe aggiornata allo strano mondo attuale. Ieri su La Stampa Lucio Caracciolo poneva il tema di che cosa può essere una politica estera nazionale se si riduce a obbedire agli Usa quando gli stessi americani non sanno più bene come reagire a un mondo sempre meno disposto all’obbedienza imperiale.
Biden dal Vietnam ha lanciato il progetto di una “Via del Cotone” da opporre alla cinese “Via della Seta” (prontamente abbandonata dalla premier italiana: non mi pare abbia fatto una splendida figura). Non sembrava molto in forma l’anziano presidente americano.
Ma non sarebbe male che Usa e Cina seguissero la via di una competizione commerciale, e pacifica, invece che bellica. Il cotone può apparire più democratico della seta (ma ci ricorda lo schiavismo e il razzismo occidentali). E il fascino della seta, eleganza da Celeste Impero, assai meno della Cina attuale, non si può negare…
Ieri il Corriere della sera ci ha parlato delle donne ucraine che nonostante il conflitto vanno a trovare parenti (e a curare propri interessi) nelle città russe. Una quotidianità “normale” che vince sull’assurdità della guerra.
Un mondo strano, appunto. In cui la politica – non solo Meloni – deve ancora dimostrare di che stoffa è fatta.
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