Kyle Thompson corpo surreale
Fotografia Incontro in occasione della personale Open Stage, curata da Gabriela Galati e organizzata da aA29 Project Room di Milano/Caserta presso la Reggia di Caserta (fino al 4 giugno)
Fotografia Incontro in occasione della personale Open Stage, curata da Gabriela Galati e organizzata da aA29 Project Room di Milano/Caserta presso la Reggia di Caserta (fino al 4 giugno)
Perdersi nella vegetazione (solo in parte addomesticata) del Giardino Inglese della Reggia di Caserta, creato per volere di Maria Carolina intorno al 1785 da Carlo Vanvitelli con John Andrew Graefer, è certamente stimolante per Kyle Thompson (Chicago 1992, vive a Portland, Oregon). Proprio in un ambiente degli appartamenti della monumentale dimora dei Borbone è ospitata la sua seconda mostra personale italiana Open Stage, curata da Gabriela Galati (fino al 4 giugno), realizzata in collaborazione con aA29 Project Room di Milano/Caserta. Il fotografo statunitense è impegnato in un progetto molto più ampio di residenza d’artista, presso la galleria diretta da Gerardo Giurin dove sono esposti altri nuclei di fotografie. Un’occasione per Thompson di vivere a Caserta per tre settimane, relazionandosi con il territorio (apprezza molto la cucina tradizionale, in particolare le polpette di pane al sugo), alla scoperta degli scenari in cui realizzare una nuova serie dove l’approccio emotivo, mediato dalla presenza stessa dell’autore, s’inserisce nel rapporto natura/luoghi abbandonati. Poetica che appartiene al giovane fotografo fin dal suo esordio nel 2011. “Ho iniziato a fotografare a 19 anni, cominciando ad esplorare i luoghi intorno a me e alla mia casa.” – spiega – “Mi feci prestare da un amico la macchina fotografica dei genitori. Fotografavo la natura, poi ho inserito l’essere umano. Ho pensato all’autoscatto per non disturbare nessuno. Mettevo il cronometro e poggiavo la macchina fotografica su un qualsiasi supporto che lo permettesse. Partendo da lì ho sviluppato il procedimento.” Nel diario visuale proposto a Caserta, Thompson per la prima volta mette il pubblico di fronte al “trucco”, ricorrendo ad una fotografia di matrice documentaria. Il “trucco” non è altro che lo sguardo ravvicinato del contesto – urbano e non – da cui egli isola il dettaglio di natura utile per mettere in campo i sentimenti. In Newspaper (2018), una declinazione dell’Ofelia preraffaellita, il fotografo galleggia sulle acque gelide di un ruscello chiudendo gli occhi, circondato da pagine di giornale al posto dei fiori. Una descrizione che evoca inconsce suggestioni, così come in Carcass (2013) dove la composizione piramidale della massa di mani che tendono verso l’alto, sembrano tradurre la ricerca dell’agognata salvezza messa in scena da Géricault in La zattera della Medusa.
In questo processo in cui ti metti a nudo letteralmente, è stata citata Francesca Woodman. E’ un referente per il tuo lavoro? Anche per te la fotografia è un mezzo per conoscerti?
Sì, il lavoro di Francesca Woodman mi ha introdotto al mondo della fotografia, ma ho anche altre referenze. Anche se è più cinematografica c’è Cindy Sherman e, poi, Gregory Crewdson per quanto riguarda l’immaginario americano.
Anche nell’idea di costruzione del set ti riferisci a Crewdson, considerando che le tue serie fotografiche, benché sembrino spontanee, in realtà sono molto costruite?
In Open stage, oltre alle foto della messinscena, si possono vedere le piccole “tasche” di natura che trovo in città, ritagliandole dagli spazi urbani o industriali che ci sono accanto. E la prima volta che le espongo insieme alle foto fatte sul set. Per Crewdson è una messinscena più letterale mentre la mia, forse, è più metaforica.
Tornando alla conoscenza di sé, in queste immagini che sono definite da molti “surreali”, che valenza ha il mettere a fuoco dettagli del corpo come mani e piedi?
Anche se sono autoritratti non rappresento necessariamente me. Sono per lo più ritratti della collettività. Nei lavori precedenti la mia identità era più esplicita, ma ora spesso nascondo il mio volto. In particolare le mani, oltre al viso, sono la parte più espressiva del corpo. Mettere a fuoco certi dettagli è un modo per permettere alle persone di provare un’emozione, identificandosi nel soggetto senza dargli un volto. A termine “surreale”, pur essendo una fonte d’ispirazione per il lavoro, preferisco quello “romantico”, perché sono immagini che documentano delle performance solitarie e non c’è manipolazione.
Nella gamma di emozioni, quali sono quelle che escono fuori maggiormente?
La vulnerabilità! Nella messinscena, per me, è importante essere in una condizione non confortevole, ad esempio immerso in pieno inverno nell’acqua fredda o all’interno di messinscena pubbliche dove la gente cammina tutt’intorno.
La fotografia non è che il momento finale di quelle che hai definito “performance solitarie”. Come procedi nella costruzione del lavoro?
Intanto dedico molto tempo all’esplorazione dei dintorni alla ricerca di “tasche” di verde. Quando le trovo scatto molte fotografie, realizzando quasi un catalogo in cui immagino la scena. Poi penso agli oggetti da inserirci. Forse è proprio la presenza di questi oggetti che non c’entrano nulla con il contesto a rimandare ad un’idea di surrealismo. Quando, poi, torno sul posto ho già un’idea chiara di quello che intendo fotografare.
Quanto è importante il tempo nel tuo lavoro?
Domanda interessante! Lavoro con il cronometro che mi dà un determinato ritmo e mi permette di concentrarmi sul movimento che voglio fare per collegarmi con il set tutt’intorno.
Hai assistenti?
Alcune volte c’è qualcuno che mi aiuta, ma la maggior parte delle immagini sono realizzate in solitudine. Preferisco stare da solo per avere il controllo totale delle immagini, ma anche perché ritengo che quello artistico sia un processo solitario.
Nell’esplorazione della natura anche il camminare, come per i poeti romantici, è fonte d’ispirazione?
Penso che camminare e fotografare sia sempre terapeutico. Nel mio lavoro mi piace percepire il movimento, muovermi nel vento, immergermi nella natura. In Harness, ad esempio, volevo quasi diventare un albero. L’idea era che il mio corpo continuasse il movimento dei rami.
Arrivi quasi a sfidare gli elementi della natura, soprattutto quando lavori con il fuoco…
Sì, è parte del processo. Come dicevo prima, per me è importante non sentirmi a mio agio per non forzare l’aspetto artificiale già presente nella messinscena, nel momento in cui isolo dal contesto quei piccolissimi spazi naturali.
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