Se n’è andato domenica 4 febbraio a Firenze e qualcuno ha ricordato che di lì Uccellino è volato via per sempre all’età di ottantanove anni. Così un giornalista aveva per l’appunto chiamato Kurt Hamrin, nato a Stoccolma il 19 novembre del ’34, cresciuto nella locale Polisportiva dell’AIK ma poi divenuto uno dei calciatori più grandi e rappresentativi che abbiano illustrato il calcio italiano. Un uomo schivo, composto e civilissimo, un giocatore capace di dissimulare senza mai esibirla una classe che pure ha prodigato in oltre vent’anni di carriera agonistica.

Nomen omen, Uccellino degli atleti scandinavi non mostrava certo il fisico (magro e sdutto com’era, di media altezza) ma serbava la tecnica comune ai grandi connazionali della sua generazione (Gren, Liedholm, Nacka Skoglund, per citare soltanto i primissimi), i campioni della Svezia finalista ai Mondiali di Stoccolma 1958, sconfitta ineluttabilmente dal Brasile di un fenomeno diciassettenne chiamato Pelé. A quella data, Hamrin è già in Italia da due anni. È arrivato alla Juventus nell’estate del ’56 (pare per iniziativa del monarca in persona, Gianni Agnelli) e gioca tuttavia in una squadra declinante, zeppa di giovanissimi o di mezze figure, cui non bastano la classe del regista Boniperti e di Lello Antoniotti.

Per parte sua, Hamrin è un’ala destra dal profilo tradizionale, che scatta verso il fondo per il cross verso l’area di rigore ovvero si accentra per la diretta conclusione: non indugia mai in esibizionismi, i suoi gesti tecnici sono misurati ed essenziali da vero opportunista dell’area (di quelli che compaiono all’ultimo momento, come poi Filippo Inzaghi, ma segnano implacabilmente).

A fine stagione, i reiterati infortuni e la gelosia di Boniperti (perché Hamrin non gli passa reverente il pallone e pretende di concludere da solo a rete) viene ceduto al Padova, anzi il famigerato Padova di Nereo Rocco e cioè il più geniale interprete del calcio all’italiana, vulgariter il catenaccio. Il quale è notoriamente l’arma dei poveri – difesa chiusa e contropiede – perché i poveri, dirà un giorno l’emulo Carlo Mazzone, hanno la tattica non potendosi permettere la tecnica dei ricchi.

Quel Padova ’57-’58, la cui epica gladiatoria si annuncia al mondo dalla buca di Prato della Valle, conquista un inaudito terzo posto in campionato: qualunque sia la partita, Hamrin si getta a capofitto nel vuoto che gli lascia la squadra avversaria avventandosi invano sul Padova, guadagna le respinte dei ruvidi Azzini e Blason per redistribuirle verso Rosa, oriundo argentino di nitido stile, o Sergio Brighenti, uno degli ottimi e più sottovalutati centravanti del calcio italiano.

È il 2 febbraio del ’58, quando il Padova riceve il Genoa guidato da Annibale Frossi che è un Rocco laureato e del gioco all’italiana è il maggiore teorico; tutto farebbe pensare ad uno 0-0 e invece finisce in goleada con un 6-3 a favore del Padova cui Gianni Brera gongolante, in tribuna, riserva all’indomani su Il Giorno un tributo che culmina nell’elogio di Hamrin: «Il palleggio stretto dei genoani s’immiseriva sui piedoni dei panzern di Rocco e la difesa, benché protetta molto da Robotti e dai laterali, era inesorabilmente infilata da Hamrin all’8’: su respinta lunga di Azzini, comodo arresto di Rosa, allungo poi ad Hamrin che scatta e brucia Monardi, poi finta d’anca e umilia Delfino, guizza ormai in area e squilibra Carlini, infine batte di destro e Franci, poareto, si butterebbe d’istinto sulla destra: solo con il piede sinistro può toccare la palla, non fermarla».

Hamrin è un campione ritrovato e finalmente liberato dai passati infortuni: molti giurano che Rocco medesimo gli abbia approntato una suoletta di cuoio per bloccare la caviglia soggetta a infortunarsi, la sinistra. Ma lo scatto improvviso, il cambio di marcia e il guizzo repentino, la conclusione maligna come il morso dell’aspide, questi sono i tratti caratteristici (insieme con i calzettoni arrotolati à la Sivori), la griffe del campione ormai riconosciuto che nello stesso 1958 passa alla Fiorentina dove rimane nove anni eleggendo Firenze a sua città adottiva.

La Viola è comunque in un passaggio di fase, non è più quella smagliante del ‘56 (con Julinho e Montuori) allenata da Fulvio Bernardini, una specie di anti-Rocco offensivista, e non è ancora quella di nuovo scudettata nel ’69, la squadra di Albertosi e Luciano Chiarugi, l’erede designato di Kurt, che ha in panchina el petisso Bruno Pesaola.

La Viola di Hamrin è comunque una compagine di rango medio-alto che annovera diversi campioni (fra cui il difensore Enzo Robotti, l’’angelo dalla faccia sporca’ Humberto Maschio in regìa e il giovane attaccante Alberto Orlando) e, senza vincere il campionato, colleziona trofei importanti quali la Coppa Italia (’61 e ’66) e la Coppa delle Coppe, alla sua prima edizione, nel ’61.

Ma quando la parabola di Hamrin, ormai trentenne, sembra avviarsi al compimento ecco la chiamata imprevista del suo vecchio mentore, Nereo Rocco, che fra le polemiche e gli insulti del tifo sta ricostruendo un Milan che tutti ancora sottovalutano. Così ne dice Gianni Brera in un suo libro classico, la Storia critica del calcio italiano (1975): «Rocco imposta la squadra secondo un modulo che egli chiama Maginot. Anche i veterani vengono rigenerati splendidamente e l’invidia porta qualcuno a insinuare che Rocco sia un gerontofilo in guaribile».

Primo dei veterani è ovviamente Hamrin ma lì il perno del gioco è il golden boy del calcio italiano, Gianni Rivera, intorno al quale flottano gli altri giocatori navigati (Malatrasi, Lodetti, Trapattoni) ma anche un centravanti del valore di Angelo Sormani e un’ala sinistra giovanissima, Piero Prati detto Pierino la peste, che sfruttando i lanci di Rivera segna in contropiede decine di gol. Con quella squadra magnifica, Hamrin vince finalmente il campionato (’68) e l’anno dopo addirittura la Coppa dei Campioni quando il vecchio Rocco, a Madrid, trova il modo di infilare in contropiede l’arrembante Ajax di Rinus Michels e dell’astro nascente Johan Cruijff, battuti con un umiliante 4-1.

L’Uccellino dispensa saggezza, ogni tanto si concede trovate ditirambiche e qualcuno dei suoi gol a sorpresa come in quella che può ritenersi la sua apoteosi nello stadio di Rotterdam (23 maggio ’68), quando il Milan batte 2-0 l’Amburgo e vince la Coppa delle Coppe con una doppietta dello svedese, celebrato in diretta tv da quel Nicolò Carosio che in effetti stravede per lui. L’ultimo biennio, fra il ’69 e il ’71, Hamrin se lo concede al Napoli dove spende gli spiccioli della sua grande classe vicino a José Altafini, a Dino Zoff e al ritrovato Angelo Sormani.

L’anno terminale, poche partite nel ’72 alla maniera di una necessaria clausola, è ancora all’AIK di Stoccolma che lo vide esordire. Nessuno nel calcio di oggi gli assomiglia se non, in serie A, un attaccante che nel passo fitto, nei rapidi cambi di marcia e nei gol rapinosi può rammentarne a volte la fisionomia, l’islandese Albert Gudmundsson che milita nel Genoa. In un libretto stampato nel ‘63 in sedicesimo (monografia n.13, a cura di Franco Mentana, della Piccola Enciclopedia dello Sport) una foto riproduce l’anonima scritta a vernice sul muro esterno di Prato della Valle, a Padova: W l’ineguagliabile Hamrin. Chiunque sia appassionato di calcio la firmerebbe volentieri.