Trent’anni fa in provincia non era difficile imbattersi in giovanissimi dall’aria triste, con i lunghi capelli che coprivano mezzo volto, gli occhi fissi. Indossavano camicie a scacchi aperte sulla t-shirt bianca o maglioni consunti troppo larghi, nessuna icona, quasi nessun marchio, jeans usurati strappati all’altezza del ginocchio, e scarpe di tela sdrucite e slacciate. A casa era difficile spiegare perché si tenevano quegli abiti che aspettavano solo di essere buttati, da lì a poco anche la fast fashion avrebbe iniziato a produrre capi già logori, nelle vetrine sarebbero finiti pantaloni nuovi strappati, macchiati o ingialliti per vendere un senso di vissuto, una subdola strategia per restituire una storia anche a chi la storia sembrava averla persa, o comunque ne era fuori.

Le questioni «generazionali» restano scivolose, gli stessi paletti temporali che stabiliscono i perimetri delle generazioni risultano fallaci in quanto, pur con lo scopo di evidenziare tratti comportamentali marcatamente comuni, risultanti da eventi macroscopici, poco o niente riescono a narrare delle gigantesche differenze socio-economiche e politiche, da e per cui ogni soggetto sviluppa quelle peculiarità. Ma tant’è. Si associa la rapida quanto luminosa parabola dei Nirvana, ma più nello specifico del frontman Kurt Cobain, alla Generation X (termine ricavato dal titolo del romanzo omonimo di Douglas Coupland) che comprende i nati fra fine Sessanta e inizi Ottanta, successiva a quella del baby boom, cioè delle tante nascite frutto della fiducia insita in un dopoguerra di prospettive, quest’ultima una generazione egemone, più numerosa e che poi si scoprì anche poco avvezza a lasciare le posizioni di potere.

La Generazione X non venne supportata da politiche pubbliche e fu catapultata nel lavoro liquido, se fino a quel punto lo sfruttamento si era focalizzato soprattutto in seno alla relazione padrone-operaio, da quel momento iniziava a valicare le etichette e a espandersi a ogni ambito della subalternità (basti pensare al lavoro culturale oggi). Si trattava ormai di una precarizzazione esistenziale, avviata anche dal rifiuto dei valori che risiedevano nell’immaginario estremamente lineare della generazione precedente (lavoro, famiglia, politica, diritti, etc.). Alcuni tratti per cui vengono tuttora additati, come la propensione al nichilismo e all’apatia, furono tutt’al più una strategia per respingere il dilagante edonismo dell’intrattenimento («Here we are now, entertain us», in Smells Like Teen Spirit), un modo per tirarsi fuori implodendo in autonomia, senza una comunità attorno o una rete sociale di salvataggio. Furono istigati al consumismo, all’individualismo, alla tensione del desiderio che generava un altro desiderio ancora, alla tensione dell’obiettivo che originava un altro obiettivo ancora, la Generazione X avvertì l’infinita ricerca di un senso che non c’era, provando sulla propria pelle l’idiosincrasia fra mondo interiore lacerato e quello esteriore luminescente di false promesse. Il vuoto radicale, doloroso, di chi ha la libertà ma non ha scelta.

IN PROVINCIA
In provincia le storture emotive dei più giovani si manifestarono più diluite forse perché vigeva meno istintività, c’era maggiore (auto)controllo, la data d’impatto con questa nuova condizione globale sarà comunque individuata – simbolicamente o meno – nel luglio 2001, con Genova, ma già nei primi anni Novanta quella sensazione di disorientamento, di assenza, di «there is no alternative», di solitudine che covava nei giovani, aveva sicuramente trovato corpo (e voce) nelle contraddizioni di Kurt Cobain.

Provinciale anche lui, cresciuto ad Aberdeen, dove venne arrestato due volte, un buco nero con alto tasso di disoccupazione e suicidi, case e negozi abbandonati, 16mila abitanti nello stato di Washington. Cobain rappresentò subito un’anomalia umana con cui tanti si identificarono prima ancora che diventasse un’icona e quindi un’astrazione: un introverso nonviolento appassionato di armi, schivo anche davanti a migliaia di spettatori, con un amico immaginario che si chiamava Boddah (e a cui scrisse la sua ultima lettera), un giovane uomo che più di se stesso sembrava amare gli altri, schierato dalla parte delle donne, dei gay, dei neri, provocò in certi ambienti ristretti e conservatori anche al di qua dell’oceano, una serie di cortocircuiti capaci di spostare quel disagio adolescenziale che collima con la rabbia verso le sopraffazioni di ogni potere.

Libri, film, documentari, fumetti, per delineare un antidivo, un loser malfunzionante, tossicomane, timido, gracile, che malgrado marciasse verso la direzione del successo planetario manteneva qualcosa di insoluto e irrecuperabile, un giovane uomo di cui percepivamo (chi scrive è del ’77) la profonda inadeguatezza e l’infelicità, quelle camicie a scacchi da boscaiolo erano l’ordinaria raffigurazione per niente spettacolare di ogni entroterra, dei luoghi ameni dove nulla accade e lontani dalla volubilità delle città, da cui si può sfuggire attraverso le sostanze, una star affine a quanti nella propria camera si sentivano già dei rinnegati senza capirne il motivo.

UN CALCOLO
Quando morì, il 5 aprile 1994 (il suo corpo venne ritrovato tre giorni dopo), alcuni rapaci della critica, ma anche la stessa madre, dichiararono che, visto il suo stile di vita, il suicidio fosse un calcolo più o meno auspicato per entrare fra le star che, a 27 anni ma non solo, persero tragicamente la vita. Si ribadiva così l’essere effettivamente mutato in ciò che non voleva diventare: una merce. Un prodotto che si valutò pure da morto, considerandolo un artista che ragionava da merce, che per acquisire più valore intrinseco decise di farla finita.

Una totale follia se si mette in conto quanto la morte aleggiasse già nei Nirvana. Una delle foto più iconiche e tragicamente premonitrici è certamente quella in cui Cobain ha un fucile mitragliatore in bocca, a sinistra Dave Grohl forza una risata, a destra Krist Novoselic simula una disinvolta posa rilassata. Sono seduti sul cofano di una berlina nera, Cobain invece è terribilmente serio, il pollice destro sul grilletto, parrebbe l’unico a suo agio.

Fin qui siamo a livello di fenomeno sociale, tramite i Nirvana e il loro grunge, nuova costola del punk rock, il rock tutto riprese vigore in uno, forse, degli ultimi veri colpi di coda. Cobain amava i Rem e diceva di copiare dai Pixies ma Nevermind (1991) era altro, l’etichetta Geffen aveva previsto 300mila copie contro le 5 milioni effettivamente vendute in pochi mesi, subito dopo arrivò il testamento In Utero (1993) che doveva intitolarsi I Hate Myself and I Want to Die. Bleach (1989), il primo e più rozzo disco, venne preso in considerazione solo a seguito del successo. La potenza di basso e batteria e la chitarra distorta a spingere oltre i confini del suono conosciuto quella voce epocale, lacerante, acuta, scream eppure sempre armoniosa, calda tanto da sprofondare in una malinconia conturbante e ribelle, aveva una matrice di spleen sempre riconoscibile che non spiccava per essere maschia, tutt’altro, anche l’aggressività dei pezzi più duri accedeva fluida, a mettere quiete a suo modo. Pure se la quiete poteva significare disordine, come nel video di Smells Like Teen Spirit, dove gli studenti si scatenano al ritmo del mantra «hello, hello, hello». Cobain odiava quella canzone, non gli piaceva cantarla, aveva avuto troppo successo diceva, eppure divenne l’inno di una generazione stanca di starsene seduta nella palestra di una scuola a guardare composta lo show.