Hanif Kureishi è sceso a Trastevere e ha incontrato solo visi pallidi a cena. L’assenza di visi neri lo indigna, ma la città tutta «triste e tragica nel suo abbandono» merita la sua disapprovazione (intervista a «L’Espresso», 4 aprile u.s.). In effetti i tanti cinesi, peruviani, filippini, indiani e qualche sperduto masai sono ben mimetizzati tra gi indigeni – ma non tra i turisti – e aggiungono alla decadenza di Roma quel tocco di esotismo che secondo tradizione le compete. Roma è una città distratta, godereccia, all’occasione violenta o cordiale; è rimasta pagana, fuori dalla modernità, e neanche si sogna di competere con la virtuosa modernità di quella di Londra in cui Kureishi è nato nel 1954, da padre pachistano e madre inglese. «La creatività inglese con cui sono cresciuto – nel pop e nella moda, nella poesia, nelle arti visive e narrative – è sempre sbocciata in luoghi diversi dal mainstream: dai club, dalle sottoculture gay, dalla classe operaia e dalla strada».
Così ne scrive sulla Repubblica del 1 luglio, in occasione di un evento spartiacque: la famosa Penguin Random House ha aperto una corsia preferenziale per quegli autori che attualmente rappresentano la variegata società britannica, «prendendo in considerazione la loro etnia, sessualità, disabilità e classe sociale». Iniziativa approvata con entusiasmo da Kureishi e Rushdie che giustamente vantano di aver introiettato sangue nuovo rispettivamente nella letteratura inglese e in quella americana. Ma il loro successo e quello del loro seguito di scrittori «postcoloniali» – termine che non li identifica correttamente, anzi li mortifica – è prova evidente che qualche apertura esisteva già, malgrado la dura e forse ingiusta selezione. «È una bella notizia che la razza padrona stia in ansia rispetto a chi dovrà stare a sentire» – aggiunge Kureishi, ancora aggressivo come quel ragazzetto che era stato, nervoso, lunatico, difficile da sopportare. Ma siamo sicuri che questa generosa cura editoriale alla grave anemia del canone occidentale non abbia imprevedibili dannosi risultati proprio per i generosi donatori di sangue? Una grandiosa biblioteca di testi in lingua inglese dovrebbe raccogliere e custodire le energie emergenti da quei continenti che da sempre coltivano le proprie diverse tradizioni espressive, che vantano letterature e lingue diverse e diversi codici interpretativi. L’eurocentrismo, anche se allargato, ha fatto già abbastanza danni. «Questo mondo non è più bianco, e non lo sarà mai più» – ha da tempo avvertito James Baldwin. Rimedi tardivi e ambigui non serviranno a un gran che. E altre perplessità si sono aggiunte: è lo statuto stesso delle narrazioni artistiche del Novecento europeo e americano a essere attualmente in crisi, come dimostrato dal dibattito internazionale in varie occasioni (vedi S. Chiodi su «Alias D», 8 luglio u.s.).
Kureishi è conosciuto in Italia come romanziere, ma anche per i film tratti dai suoi scritti ( My beautiful laundrette, Sammy and Rose get laid per citare solo i più noti, passati anche in televisione). Il suo romanzo di maggior successo, The Buddha of Suburbia del 1990, tradotto nello stesso anno, lo si trova ancora oggi nelle piccole librerie di quartiere. È quindi con interesse che leggiamo la sua raccolta di «racconti e saggi» già pubblicati, ma nuovi per la generalità dei lettori italiani, Love + Hate, uscito in Inghilterra con lo stesso titolo nel 2015, tradotto da Davide Tortorella per Bompiani («Overlook», pp, 198, € 17,00). Il primo racconto «Volo 423» è magistrale, e basterebbe da solo a meritargli la gratitudine di lettori sia bianchi che colorati. Un passeggero qualunque sorseggia champagne sul volo 423, ma quel volo porta tutti loro verso la morte, benché impegnati minuto per minuto in piccoli atti quoditiani, effimeri sollievi, ingannevoli speranze fino al gesto finale che segna la preparazione alla fine. Si rimette le scarpe, e capovolgendo una scarpa trova un sassolino. «Lo tirò fuori e si mise a osservarlo, soppesandolo nel palmo della mano. Era rotondo come la Terra e liscio come una perla». Molto intenso anche se di stile confessionale più diffuso, colloquiale, l’ultimo racconto «Storia di un furto. Il mio caro imbroglione» dove odio e amore, fascinazione e ribrezzo non solo per l’imbroglione ma anche per se stesso, vittima volontaria, irretita senza speranza di fuga, si mescolano e si contagiano a vicenda. «Dopotutto, il vincolo masochistico è uno dei più forti che ci siano. Gli oppressori ce li scegliamo noi, e li amiamo come i nostri genitori».
Invece, mai pubblicate da noi, sono le tre pagine «Gli stranieri questi sconosciuti. Il nuovo mito del migrante», scritte dal figlio di un pakistano che era partito da Bombay nel 1947 – e la parola pakistano o paki era allora un insulto. «Il migrante non ha volto né condizione, non ha protezione, né storia … La diversità e il multiculturalismo possono diventare forme di esotismo e narcisismo, e l’esagerazione della differenza genera nuove forme di pregiudizio. Nel frattempo, il quorum dell’odio è assicurato grazie alla vituperata figura del migrante. L’integrazione è rimandata a tempo indeterminato … L’idea del migrante appare angosciosa per la semplice ragione che il migrante è uno sconosciuto e tale deve rimanere».