Una delle moderne manifestazioni di quella postmoderna decadenza degli intellettuali denunciata decenni fa da Zygmunt Bauman sta nella irrilevanza politica del poeta. Costretto dalla conclamata alterità di vita e poesia in una posizione socialmente marginale, abbandonato dai potenti mecenati di un tempo in virtù della sua natura poco controllabile e in ultima analisi inaffidabile, convinto a suon di denaro dall’industria culturale ad accomodarsi nella confortevole posizione dell’osservatore melancolico, ironico o arrabbiato, il poeta ha perso via via credibilità come protagonista della vita activa.

I suoi interventi sono tuttalpiù indiretti, in quanto riflesso di meditazioni solitarie, che solo incidentalmente sfiorano il «grande mondo» dell’interesse comune o universale. E quando osa avventurarsi al di fuori del terreno sicuro e appartato che gli è stato predisposto, si attira perlopiù strumentalizzazioni o discredito. Un indice di questo stato dell’arte viene dal rimpianto – sospetto, perché non di rado ipocrita – per quegli scrittori come Thomas Mann, Pasolini o Orwell dei quali, peraltro, volentieri si vorrebbe disconoscere (e a volte francamente si disconosce) la rilevanza poetica.

In questo panorama di macerie della modernità capita a volte di imbattersi in un caso d’eccezione e così, un paio di anni fa, la ripubblicazione di Un Occidente prigioniero in coincidenza con l’invasione russa dell’Ucraina, spinse non pochi commentatori a convincersi, magari un po’ in ritardo, che Milan Kundera, oltre alla capacità di indagare con sublime ironia le profondità dell’essere, avesse posseduto anche il dono di rappresentare l’ormai incombente destino dell’Europa. La sua difesa delle piccole nazioni mitteleuropee e della loro più profonda identità, messa in pericolo dallo scontro economico e militare fra i blocchi occidentali e orientali, fu interpretata – con riflesso quasi unanime – come invettiva profetica in difesa di uno stato minacciato nella sua indipendenza e libertà. L’interpretazione era corretta, salvo dimenticare che l’altra faccia di quel saggio era dedicata alla denuncia della miopia con cui l’occidente europeo, compiaciuto del proprio benessere e privo della capacità di riconoscere alla memoria di sé la dignità di un grande tema politico, si stava incamminando proprio su quella pericolosa strada già percorsa, con enorme sofferenza, dalle piccole nazioni centro-orientali.

Termine di paragone era stato, per Kundera, la storia della sua Boemia, salvata dalla scomparsa cui l’avrebbero condannata i tanti occupanti, invasori e dominatori, dai suoi musicisti, scrittori, e artisti che ne avevano preservato il linguaggio, la cultura e la memoria storica. Di questa memoria poetica, diventata per volontà e per forza di cose terreno di azione politica, Kundera aveva già scritto in quel capolavoro assoluto della letteratura universale che è il suo esordio Lo scherzo, e in forme diverse nei suoi romanzi successivi, oltre che in molti dei suoi saggi. Uno di questi, Praga, poesia che scompare, che risale al 1980 e precede, dunque, Un Occidente prigioniero – del 1983 – riappare adesso (da Adelphi nella traduzione di Giorgio Pinotti, pp. 102, € 12,00) e completa il quadro della riflessione politica e poetica di Kundera, necessariamente legata alla ricostruzione del percorso storico della cultura boema nel suo valore rappresentativo per le sorti dell’intera Europa.

Il saggio ha la forma assai poco spettacolare della rassegna, resa unica dall’intelligenza sintetica con cui Kundera individua il nucleo centrale delle poetiche di Kafka, di Hašek, di Nezval, di Capek, di Janácek, mettendole in relazione con la storia di Praga e della Boemia, e delle sue innumerevoli figure di scrittori e artisti.
In non più di trenta pagine Kundera racchiude un secolo e la chiave della cultura di una città che di quel secolo è stata la capitale più esposta alle vicende della storia. E quando descrive il valore dello strutturalismo praghese per quella storia, riprende il filo della sua riflessione politica: perché al movimento di Mukarowsky e Jakobson, Kundera riconosce lo stesso valore politico di tutta la cultura praghese: «comprendere e difendere l’arte nella sua specificità».

Può apparire incomprensibile, a un occidente che si preoccupa solo dello scarso utile ricavabile dalla poesia e dalla cultura, che Kundera ponga proprio l’arte e la cultura al centro del suo ragionamento, anche e soprattutto politico. Ma quando scrive il suo saggio, la Cecoslovacchia soffre ancora le ferite della repressione della Primavera praghese e conosce la politica solo come potere oppressivo, come «forza riduttrice» della complessità della storia e della realtà alla miopia di principi unificanti e vessatori. Dinanzi alla «notte totalitaria», scrive Kundera, la cultura praghese «ha saputo rispecchiarla, giudicarla, irriderla, analizzarla, trasformarla in oggetto di una specifica esperienza intellettuale. Il talento per il piccolo trafiggeva l’arroganza della grandezza. Lo spirito della non serietà corrodeva la serietà ideologica in ciò che ha di più orribile».

Farebbe bene l’occidente, prigioniero di se stesso, a fare tesoro della visione politica dei suoi artisti: nello stato di necessità in cui rischia di trovarsi rigettato un frammento di mondo in balia di altre potenze e del loro grande gioco, potrebbe un giorno essere salvato dalla resistenza e dall’opposizione dell’arte. Perché è vero che nell’opulenza della pace ci si può permettere di attribuire agli artisti solo funzioni ancillari, quando non di puro intrattenimento; ma senza l’ottica dell’arte rischia di venir meno anche la speranza hölderliniana di veder crescere la salvezza là dove, un giorno, ci sarà il pericolo.