Visioni

Krakow Film Festival, immagini alla ricerca di uno sguardo sul mondo

Krakow Film Festival, immagini alla ricerca di uno sguardo sul mondoFlowers of Ukraine», regia Adelina Borets

Cinema Si è chiusa ieri la rassegna polacca, una selezione che mette al centro le questioni del presente. La Polonia dei rifugiati e quella negli anni del regime, le registe, le forme di resistenza in Ucraina

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 2 giugno 2024

Sulle rive della Vistola, il fiume che attraversa la Polonia e bagna anche Cracovia – seconda città polacca per abitanti, circa un milione tra residenti e studenti che la frequentano, a cui sui aggiungono i numerosi turisti che la affollano – si svolge da 64 anni il Krakow Film Festival (terminato ieri sera), fra i maggiori appuntamenti cinematografici polacchi, che esplora il cinema del reale proponendo, con quasi duecento film inseriti nel programma, un’ampia panoramica dello stato attuale di chi fa cinema in Polonia e da ogni parte del mondo. E raccontando storie che trattano una moltitudine di soggetti declinati con un’altrettanta moltitudine di punti di vista.
Quattro le sezioni competitive (lungo e cortometraggi internazionali, concorso polacco, concorso internazionale DocFilmMusic) più focus tematici e retrospettive – dedicate quest’anno a Godfrey Reggio e a Jacek Petrycki, attento osservatore della vita quotidiana con sguardo poetico nonché promotore del cinema documentario polacco internazionalmente.

SE È COERENTE con la sua idea di ricerca, quest’anno il festival ha cambiato la sua sede principale «traslocando», pare anche per motivi di costi, dal moderno e spazioso centro culturale MOS (Małopolski Ogród Sztuki, progettato dall’architetto Krzysztof Ingarden) all’interno di un altro edificio, sempre nel centro cittadino, ma di impatto estetico del tutto differente: l’Accademia di Belle Arti Jan Matejko, nota con l’acronimo ASP, fondata all’inizio dell’Ottocento, dove si respira il senso della Storia dietro le spesse porte d’ingresso che conducono ai tanti spazi che la costituiscono. Compreso quello che ospita una delle sale del festival, che vanno dall’immenso Kino Kijóv a quelle che potremmo definire underground, come l’Agrafka, «nascosta» al primo piano di un altro centro multiculturale.

Luoghi e film da scoprire. E tematiche comuni che affiorano. Si pensi a due opere polacche, entrambe a regia femminile, che riflettono, con punti di vista opposti, su una delle questioni odierne più drammatiche e brucianti, la tragedia vissuta dai rifugiati costretti nel limbo sul confine tra Polonia e Bielorussia. Si tratta di Forest di Lidia Duda e Silent Trees di Agnieszka Zwiefka. Duda pone al centro del suo lavoro la quotidianità di una famiglia (marito, moglie, tre bambini) che si era trasferita in campagna ipotizzando una vita a contatto con la natura dove far crescere i figli. Oggi però tutto è cambiato. Nella foresta accanto alla loro abitazione si aggirano persone senza nome, come dei fantasmi (e il film li lascia volutamente fuori campo), lasciano tracce del loro passare, oggetti, indumenti, documenti. Persone erranti che nessuno vuole.
I materiali d’osservazione sono fondamentali: macchine fotografiche, videocamere, cannocchiali servono alla coppia, così come ai figli resi partecipi degli accadimenti, per registrare quanto succede nella foresta e aiutare i migranti. Filmato con sensibilità, tra camera a mano lieve, lavoro sui dettagli e sui corpi di esseri umani e animali, totali del luogo, il film si interroga sulle nostre responsabilità e quale sia il nostro posto nel mondo.

ZWIEFKA, invece, porta in primo piano i volti di alcuni rifugiati, concentrandosi in particolare sull’instabilità vissuta da una famiglia curda giunta in Polonia dopo avere sofferto dolori e perdite nel transito tra Bielorussia e Polonia. Tutto è visto attraverso gli occhi della figlia maggiore Runa (costretta a portare degli occhiali – segno teorico di un guardare diverso, che appartiene però più a lei che al film «adagiato» su uno sguardo raramente sorprendente), mentre i suoi pensieri e ricordi si materializzano in magnifici inserti di animazione a carboncino.

Agli archivi si affida ancora una volta Tomasz Wolski in A Year in the Life of the Country. L’autore polacco di  scava in un momento di svolta nella storia polacca, quegli albori degli anni ’80 nei quali la propaganda ha dato il peggio di sé – compresa l’instaurazione della legge marziale il 13 dicembre 1981 – per sopprimere le istanze di cambiamento invocate dalla popolazione. Wolski lavora con minuzia sul found footage per creare il ritratto storico di un periodo e di un Paese denunciando le assurdità di un regime e i passi di una rivoluzione che non potevano più arretrare.

E POI CI SONO giovani cineaste di talento come l’armena Shoghakat Vardanyan e l’ucraina Adelina Borets. La prima sta girando i festival, e vincendo premi, con il suo magnifico 1489, ricerca di suo fratello soldato scomparso combattendo nel 2020 nella guerra tra Armenia e Azerbajian per il controllo del Nagorno-Karabakh. Emozioni altrettanto potenti ha suscitato il film di Borets Flowers of Ukraine, ritratto di una donna che a Kiev lotta – per difendere la sua abitazione dagli investitori e che si trova poi a dover far fronte a un’ulteriore resistenza nel momento in cui la Russia invade l’Ucraina.

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